Attraversando il confine
Attraversando il confine
Ho lasciato Singapore alle spalle, ed è bastato un confine per cambiare musica. La perfezione urbana si è sfilata come un abito costoso, e fuori dal finestrino ora scorrono distese più disordinate, più vive. Palme d’olio, banani, tetti in lamiera e cemento grigio. La giungla, qui, ha meno regole.
Siamo in Malesia. E lo si sente. È una differenza fatta di piccole crepe: nei marciapiedi, nei cavi elettrici appesi come liane moderne, nelle facce più rilassate. Come se qui l’ossessione del controllo si fosse presa una pausa.
Alla dogana ho sudato sette camicie — sei metaforiche, una ben reale. Il sito dell'immigrazione online sembrava progettato da qualcuno che non crede nell'esistenza degli autobus. Solo aerei o navi. Io, evidentemente, un’entità sospesa con l'ansia che il bus mi lasciasse a piedi con una lorda di indiano in pellegrinaggio.
Un ufficiale, sguardo pacato ma con l’aria di chi ha già visto abbastanza turisti smarriti per questa vita, mi accompagna in uno sgabuzzino: un computer vecchio degli anni 2000, una tastiera scolorita, e un ventilatore a pale che faceva più scena che aria. Seduta lì, a compilare un modulo in un luogo senza tempo.
L’autobus, quando finalmente arriva, sembra uscito da una pubblicità di lusso asiatico. Nero e rosso, lucido quanto basta, imponente, ma con smagliature importanti. Salgo, e vengo accolta da quello che chiamano "poltrone solitarie" — e già mi sento una regina. Sedili color beige, ampi e morbidi, distanziati come in prima classe di un volo che non posso permettermi. Le tendine alle finestre tremano ad ogni buca, come se anche loro stessero cercando di capire dove stanno andando.
Il lusso è un po’ scrostato, ma sincero. Per quaranta euro: cinque ore di viaggio, poltrona con massaggio intermittente, copertina con disegni simil barlinghton , bottiglia d’acqua e — sorpresa — un pasto malese. Riso caldo con sambal, una salsa piccante a base di peperoncino, aglio, scalogno, a volte anche gamberetti secchi o pasta di acciughe. Brucia e consola allo stesso tempo. C’è anche pollo speziato, buono davvero.
Ma ci vado piano: memore di tutte le esperienze intestinali avventurose nei miei viaggi, ho imparato che il cagotto può essere sempre dietro l’angolo, pronto a rovinarti le contemplazioni spirituali.
Dentro l’autobus ci sono due inservienti, una specie di duo comico involontario. Fanno tutto in tandem: uno parla, l’altro conferma. Uno serve, l’altro controlla. Sembrano due fratelli gemelli dell’ansia organizzativa. Ma in fondo, la cosa funziona. In maniera ambigua ma funziona.
Dopo un paio d’ore, l’autobus si ferma. In mezzo al nulla. Niente autogrill qui — dimentichiamo le catene lucide e gli scaffali ordinati della Svizzera d’Asia che era Singapore. Qui ci sono piccole stazioncine, tettoie di lamiera, bagni dai pavimenti bagnati, una signora che frigge qualcosa che profuma di buono e di rischio. Fa più caldo. E l’aria è più sporca. Ma c’è qualcosa di umano, qui. Di vivo. La perfezione stanca, il disagio accoglie.
Io ho sonno. Il cielo è grigio, appesantito da rimasugli di monsoni e pensieri. A Singapore non ho dormito quasi mai. Il fuso orario, l’umidità, i rumori della giungla urbana. Ma forse anche i pensieri. Quei rimugini che si infilano sotto le coperte e ti fanno rimanere nel dormiveglia, tesa.
Sto ancora cercando di raggiungermi. Il mio corpo è qui, ma la testa e l’anima ci mettono più tempo. È come se ognuna viaggiasse con un biglietto separato, e ora aspettassero di ritrovarsi a metà strada.
Nell'ultima settimana ho parlato poco. Ascoltato molto. Ho abbracciato due bambini bellissimi, mescolati come me, e mi hanno fatto tornare bambina. Quel senso di identità ancora oggi fluttuante, di essere ovunque e in nessun luogo. Un’identità che è un ponte. E i ponti, per quanto nobili, spesso non sono mai da una sola parte.
Ho visto coppie miste, gli entusiasmi e i piccoli inciampi. Le abitudini culturali che diventano muri se non le abbracci con pazienza. Ho visto anche mia cugina, oggi donna, madre, leader di successo.Diversa da me, ma con la stessa tensione nel cuore: quella corda invisibile che ci lega all’idea di dover sempre rendere, dimostrare, produrre. Quell'idea di essere visibili e di successo, per essere qualcuno, in un'educazione che qui di affettivo ha molto ancora da imparare.
In fondo, mi sono sempre costellata di uomini più di successo, più abili, più visibili. Ma con egos abbastanza voluminosi da far sembrare invisibile tutto ciò che li circondava. Uomini che, nel brillare, avevano bisogno che io restassi qualche gradino più in basso. E intorno, donne forti, resistenti dal basso. Che combattevano col sorriso, che costruivano partendo da macerie. Un modello eloquente. Semplice e crudele. Mi ha formato.
Ed eccomi qui, in questa solitudine piena di voci. In questa indipendenza che ha il sapore dolce-amaro della sopravvivenza. In questa poltrona solitaria che tremola a ogni buca.
Forse viaggiare serve anche a questo: non tanto a scoprire luoghi nuovi, ma a riconoscere — pezzo dopo pezzo — chi siamo, e da dove ci stiamo davvero spostando.
Lasciare che le parti di sé arrivino un po’ alla volta.
Come i bagagli in stiva.
Come il Wi-Fi in questo autobus.I miei occhi si chiudono. Lentamente. Come tende tirate piano, per non svegliare nessuno.
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