Il Respiro della Città Giardino

Il Respiro della Città Giardino

I sapori sono un detonatore. Il primo, forse il più immediato, a far esplodere i ricordi. Fortissimi. E quasi sempre legati all’infanzia.

Tutte le mattine ormai cammino fino al mercato coperto, vicino alla sopraelevata. Seguo sempre lo stesso percorso, sempre lo stesso sguardo all’insù. Una mia abitudine. Mi piace osservare i palazzi: le loro linee nette, i bordi che si stagliano contro il cielo. In Italia, o in alcune città del Nord Europa — ma anche quando vivevo nel sottotetto a Parigi — mi perdevo in quel voyeurismo quotidiano che non ha nulla di ossessivo. Mi piaceva cogliere scorci di vita, vedere le stanze illuminate, le pareti affrescate o minimaliste, intuire abitudini, gesti, quotidianità.

Qui, a Singapore, questo sguardo è precluso. I palazzi sono altissimi, verticali, eccessivamente funzionali. Alcuni, mi diceva D. l’altro giorno, fino a poco tempo fa erano abitazioni popolari abbandonate, coperte dalla vegetazione tropicale. Le hanno demolite e poi ricostruite in verticale: bilocali uno sopra l’altro, dipinti tutti dello stessi colori pastello,, in una serialità rassicurante ma un po’ inquietante. Non si fanno più molti figli, qui. Il governo incentiva la natalità, ma i numeri restano bassi e i costi alti.

Singapore ha un vasto programma di edilizia pubblica, noto come HDB (Housing and Development Board), che ospita oltre l’80% della popolazione. È un modello urbanistico ibrido: tra social housing e proprietà privata sovvenzionata. Nacque nel 1960 per rispondere a una crisi abitativa devastante. Oggi, se da un lato garantisce alloggi moderni e servizi di base, dall’altro segna un’omologazione visiva e sociale. I quartieri HDB sono puliti, ordinati, dotati di spazi comuni — giardinetti, aree per il gioco, campi da sport improvvisati — ma sembrano voler disciplinare la vita più che accoglierla. In molti edifici mancano i balconi: lo spazio viene sostituito da aste metalliche perpendicolari ai muri, dove stendere i panni. Una soluzione che riflette non solo esigenze architettoniche, ma anche diffidenze sociali: «Sai che qui dicono che le collaboratrici domestiche non siano in grado di capire il pericolo?», mi ha raccontato mia cugina. «Temono che si sporgano troppo, che cada qualcuno. Così non ci sono balconi, o sono chiusi da grate.»

 

Sotto quei palazzi, spesso, vedo migranti. Sono seduti a terra, stremati dopo turni di lavoro pesanti. Alcuni chiacchierano sommessamente, altri dormono appoggiati ai sacchi di cemento o alle reti arrotolate. Lavorano nei cantieri, nei traslochi, nei ristoranti, nelle pulizie. E lì, nella strada per il mercato, si riposano.

Mia cugina ha lavorato a una campagna per la sicurezza dei lavoratori migranti. Una delle criticità più gravi? Il trasporto. Spesso vengono stipati in camionette senza cinture, senza protezioni, in numero superiore a quello previsto. Gli incidenti sono frequenti, ma invisibili.

«È un problema,» mi diceva una sera, seduta davanti al mio pc mentre commentava impietosamente il sito dell’organizzazione. «Non è solo questione di sicurezza. È questione di dignità. Guarda, ti piace la campagna che abbiamo disegnato per la prevenzione?»

Intanto arrivo al mercato. Mi accoglie il caos familiare dei food stands: odori, voci, vapore che sale dai wok. Entro in un negozio per fare la SIM locale, ma finisco in una piccola epopea. La proprietaria, una signora cinese attempata ma iperconnessa, ha tre telefoni, un computer, una stampante, un telefono fisso e sullo scaffale un arsenale di macchine fotografiche usa e getta, quelle che si trovavano nei fustini di Dixan negli anni ’80.

(Odio dirlo, ma devo specificarlo per chi è nato dopo: una volta, nei detersivi in polvere, trovavi i regali. Li giravi come sabbia alla ricerca del tesoro.)

La signora accoglie tutti con sorrisi e lunghe conversazioni, tranne me. Ogni volta, per qualche strana legge dell’universo, sono sempre l’ultima in fila. Come quando cambi corsia in autostrada convinta di fare prima, e invece rallenta tutto.

Dopo quaranta minuti con una SIM nuova che malfunziona, passo al negozio accanto, che vende rimedi della medicina tradizionale cinese e afferro un offerta 2x1 di infusi a base di crisantemo e caprifoglio. Sono chiamate "bevande cooling", rinfrescanti. Secondo la medicina cinese, infatti, ogni cibo ha una polarità yin o yang. Quando fa molto caldo e il corpo suda troppo, si considera in uno stato "yang" e va raffreddato con alimenti e bevande yin. Come con un motore che surriscalda: se non lo rinfreschi, si fonde.

Anche qui il negozio ha mensole e vetrine con disposti vari oggetti tra cui porcellane, ninnoli e nannoli e purtroppo decine di nidi di rondine con un packaging elegante, importante, stiloso direi. Uno scempio, penso. Non solo ecologico ma anche gastronomico. I nidi di rondine vengono raccolti per preparare zuppe considerate afrodisiache e preziose, specie in Cina. Ma la raccolta è invasiva: i piccoli vengono uccisi, i genitori costretti a ricostruire i nidi più volte, fino allo sfinimento. L’uso gastronomico di questi nidi è una delle cause della loro estinzione.

Mi ricordo di Batu Cave, in Malesia, una destinazione che fin da piccola frequentavo per dare cibo ai macachi lungo i centinaia di gradini, e perché lo consideravo come il mio primo approccio all’induismo. Non so perché, ma la statua di Shiva che impera in cima a una spaventosa e faticosa gradinata, a custodire un’enorme grotta vegliando su noi mortali, mi affascinava. E dentro, le rondini, che nidificano.

Alla fine, arrivo al food court. Scelgo un piatto semplice: zuppa di noodles fatti a mano con polpette di pesce. Il vapore si alza dal vassoio mentre cerco un posto libero. Mi siedo davanti a una donna, forse thailandese o birmana, che mangia felice con la bocca piena riuscendo a sorridermi tenendo le labbra serrate. Mi rilasso. Poi arriva lei, un’anziana con il carrellino della spesa, lo stesso che uso io in Italia. Mi chiede in cinese se il posto è libero. Sorrido, comprendo, annuisco.

Si siede con lentezza. Ha la pelle sottile come un velo, capillari visibili, due bracciali sottili e uno di giada. La giada è sacra nella cultura cinese: simbolo di purezza, saggezza, protezione. Un tempo, si regalava alla nascita o nei momenti importanti della vita. Mia nonna Mei, o semplicemente Po-Po (nonna paterna), mi aveva dato un pendente circolare di giada con un foro al centro, simbolo di eternità e armonia. Ogni anno mi portava in oreficeria, per regalarmi orecchini, o bracciali, o pendenti con il segno della buona fortuna, in oro giallo. Un’usanza per augurare prosperità. Porto al dito un anello d’oro con delicate filigrane, intrecciate a formare tanti infiniti, o tanti nodi ad “otto” come li chiamo io quando devo farli alla corda per arrampicare.

Concludo la zuppa con soddisfazione. Il cielo è coperto, ma non piove. Decido di andare a Marina Bay. Singapore, nel suo abito più formale.

Non sono mai stata a New York. Non credo ci andrò mai. Ma qui, affacciata alla baia, con le linee dello skyline che si riflettono sull’acqua come inchiostro steso su carta di riso, sento che questa potrebbe essere, in un certo senso, la mia metropoli.

Il paesaggio ha qualcosa di melodico: curve leggere che ricordano i petali del museo della scienza, la sfera luminosa del negozio Macintosh come un occhio aperto sul mondo, e la nave sospesa disegnata da Renzo Piano, che sembra fluttuare sopra le nostre teste. Le linee si rincorrono, si sfiorano, si annodano tesi come fili di una telaio o sospesi come di seta nel vento.

Tutto qui è costruito secondo i principi del feng shui — un’antica disciplina cinese che cerca l’armonia tra le cose, i luoghi, le direzioni. Letteralmente significa "vento e acqua": è un’arte sottile, silenziosa, che insegna a far fluire l’energia attraverso forme, materiali, orientamenti. Gli americani, con i loro grattacieli come punteruoli dritti, sembrano dimenticare tutto questo. Qui invece, ogni elemento ha un posto e un equilibrio: il fuoco del sole, l’acqua della baia, la terra viva dei giardini, il metallo delle strutture, il legno delle passerelle. Camminarci in mezzo dà una pace che non è solo mentale, ma fisica.


Eppure, Singapore, potrebbe essere una mia città, con un sottofondo occidentale, una contaminazione stilistica così ben riuscita che non si distingue più il confine. È uno stile tutto suo, mescolato, armonico, ma anche ambiguo. Forse è questo che mi attrae.


Mi torna in mente un altro bivio. Quando mi diplomai, mio padre mi chiamò nel suo studio, con quell’aria solenne, con un sorriso beffardo, che prendeva solo nei momenti cruciali. Mi chiese cosa volessi fare. Gli risposi con candore: “architettura del paesaggio, o archeologia.” Lui prese un foglio bianco, tracciò tre cerchi netti: medicina, ingegneria, legge. Ecco.  Scelsi biologia, convincendolo che il primo anno era simile a medicina. Un modo per sfuggire alle regole ma restare dentro lo schema. Una forma di fuga travestita da obbedienza.Fino a che la mia laurea rivelò studi in etologia e primatologia. Porto ancora oggi dei sensi di colpa, solo per il fatto che forse un pochino di ragione l’aveva, ma anch’io del resto.

E pensare che ero negata in botanica. L’erbario, ai miei tempi, lo preparava un’anima pia che poi lo passava di mano in mano. Ma poi la natura — quella vera, selvatica, imperfetta — ha cominciato a parlarmi. Mi affascinava anche l’ordine geometrico dei giardini all’inglese, lo ammetto: forse per via del Regno Unito che affiora dappertutto, e ha influenzato molto la vita di entrambi i miei genitori. Una costellazione influenzata anche da mia nonna Flora, veneta, con un amore incondizionato per le piante, uno dei pochi che ha conosciuto.

Ed eccomi quindi tra due giardini. La Dome of Flowers, una sorta di Pegaso botanico che ricrea artificialmente tutte e quattro le stagioni, come un sogno di carta origami dove l’inverno e la primavera convivono sotto lo stesso cielo di vetro.

Tra i viali si incontrano sculture ispirate allo zodiaco cinese: cavalli, tigri, leoni. Simboli potenti, ricorrenti, ma non invadenti. Non manca mai, però, una piccola firma anglosassone: un dettaglio in ghisa, una miniatura regale, una citazione architettonica che ricorda chi qui ha messo radici con altri scopi.

E si cammina così, in equilibrio tra continenti, tra baobab africani e ulivi centenari, un accostamento surreale ma possibile. Tutto si tiene. La musica classica accompagna i passi, come una carezza.

Poi si entra nel Cloud Forest. Qui tutto cambia. È una foresta sospesa, con una cascata che si nutre di sé stessa e al tempo stesso nutre tutto ciò che la circonda. L’umidità è gentile, penetra nelle foglie, nelle orchidee che pendono come parole non dette, nelle begonie dai colori timidi. The Garden of Bay, era questa la visione del Signor Tan.

Un uomo che, nonostante l'opposizione dei suoi genitori alla scelta di studiare storia, si trasferì negli Stati Uniti per dedicarsi alla botanica. Lì divenne un esperto di orchidee ai Maricel Bay Botanic Gardens in Florida. Quando seppe che il Singapore Botanic Garden rischiava di essere declassato e trasferito a Sentosa, tornò. La sua visione (e il suo denaro) salvò non solo quel giardino, ma il concetto stesso di città-giardino.

  

La sua più grande battaglia fu per Chek Jawa, un angolo selvatico che stava per essere bonificato per far spazio a un campo militare. Tan dimostrò che lì vivevano 97 specie di pesci, 115 di uccelli, 121 piante — molte delle quali rare o a rischio. L’opinione pubblica si sollevò. La natura vinse assieme. E oggi Singapore è uno dei centri di ricerca botanica e sulla biodiversità più avanzati del Sud-est asiatico. Lui ha finanziato esplorazioni, spedizioni in Indonesia e Malesia, studi sulle formazioni calcaree del Borneo minacciate dall’industria del cemento. Un uomo che ha dato significato a una parola spesso abusata: conservazione.

E forse, questa convivenza tra cemento e verde, tra ordine e vita, è ciò che mi muove. In un’isola minuscola, si è scelto di non strappare tutto. Di crescere in verticale, sì, ma senza schiacciare. Come fanno le orchidee epifite che vivono nell’aria, appese al mondo. Non mettono radici nel terreno, ma si appoggiano ad altri alberi senza danneggiarli. Vivono in simbiosi con l’ambiente, prendendo solo il necessario. Eleganti e sobrie, un modello ecologico di rispetto e misura. Chiedono solo uno spazio in cui fiorire.  Sì, quanto le capisco.



 

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