Integrazione è restare reali/ Integration is being true to ourselves

C’è qualcosa di profondamente misterioso nel perché si parte.

Non lo si spiega davvero con una promozione, un amore, o la promessa di un clima più mite. C’è sempre sotto qualcosa di più sottile, di più personale e quasi indicibile. Una forma d’inquietudine. Un’urgenza. Come se certi individui, in certi momenti della loro vita, fossero chiamati da un vento, come quello di cui parlava Chatwin, che porta le tribù nomadi a rimettersi in cammino nonostante l’oasi, la tenda, la quiete.

In Malesia, questo vento soffia da tutte le direzioni. Kuala Lumpur è oggi una delle capitali invisibili dell’espatrio. Invisibile perché mai dichiarata, mai raccontata fino in fondo, come se i grattacieli cresciuti a vista d’occhio fossero spuntati da sé, senza mani né storie a disegnarli. E invece, dentro quegli ascensori veloci che salgono al 45esimo piano, ci sono vite intere venute da Caracas, da Milano, da Chennai, da Melbourne, da Johannesburg. Vite che hanno attraversato oceani e dogane, visti e decisioni spesso dilanianti, per sedersi a una scrivania o aprire un bistrot in una città che non è la loro, ma che per un tempo indefinito lo sarà.

La Malesia è un paese che ha scelto lo sviluppo. Ha puntato tutto – o quasi – sulla crescita economica, sulla riduzione della povertà, sulla stabilità. E per mantenerla, ha costruito un sistema di quote etniche: i bumiputra, ovvero i malesi musulmani, hanno vantaggi e corsie preferenziali, affinché l’equilibrio apparente non venga spezzato da nuove maggioranze, da nuove pretese. In nome della pace, si dice. Ma è una pace sorvegliata, che ha come prezzo la compressione di certi diritti, in cui la libertà d’espressione è così: concessa a tratti, interrotta spesso.

Eppure non si può dire che la Malesia sia rimasta ferma. Le elezioni si svolgono regolarmente. C’è stato un cambio di governo storico nel 2018, che ha mostrato la maturità di una società civile in fermento. C’è un attivismo giovanile, c’è la stampa indipendente, ci sono giudici coraggiosi.

Ma tutto avviene sotto una lente di equilibrio forzato: non disturbare l’armonia razziale. È questa la frase più pronunciata, il mantra che giustifica ogni censura, ogni silenzio, ogni concessione.

La Bumiputera policy, ha radici lontane, nel colonialismo britannico che portò milioni di lavoratori indiani nelle piantagioni di gomma e cinesi nelle miniere di stagno.

L’economia, già allora, era dominata dai non-Malays. E quando il paese ottenne l’indipendenza nel 1957, si scelse di non toccare quel passato, ma di contenerlo. Così nacque l’articolo 153 della Costituzione, che garantisce corsie preferenziali ai Bumiputera: quote riservate nei concorsi pubblici, borse di studio, permessi edilizi, appalti, proprietà azionarie.
Nel 1971 fu istituita la New Economic Policy per ridurre la povertà e correggere gli squilibri economici. Ma la Malesia non abolì il sistema delle etnie. Lo rese legge. E così oggi, anche per vendere un’auto importata, c’è bisogno di un intermediario Bumiputera.

Eppure, l'integrazione si predica. Si mostra nei manifesti pubblici, nei sorrisi istituzionali, nelle festività, ma poi , in gran numero si torna a casa, e ognuno al proprio quartiere.

I cinesi a Mont Kiara, in condomini dallo stile singaporiano. Gli indiani nei sobborghi storici come Brickfields, con i templi dipinti di giallo. I Bumiputera nei kampung, o nelle nuove residenze sovvenzionate. Ognuno con la sua scuola, il suo tempio, la sua lingua madre. Ognuno con una cittadinanza che è solo sulla carta.

Sì, i cinesi malesi votano. Da decenni. Ma non sono mai stati davvero rappresentati. Sono il 23% della popolazione, ma solo una manciata ha raggiunto posizioni di potere nel governo.
Una democrazia pluralista, sulla carta. Una realtà stratificata, nella vita.

In questo contesto, cosa vuol dire integrarsi? E chi decide cosa è davvero integrazione?



L’integrazione, qui, è una parola fragile. Non è assimilazione. Non è fusione. È una danza delicata tra tolleranza e distanza. Le comunità cinesi e indiane vivono da generazioni nel paese, ma continuano a essere chiamate “minorities”. E gli expat, anche dopo trent’anni, restano “expat”, mai semplicemente cittadini.

Livio è un architetto romano che vive in Malesia da oltre trent’anni. Un tempo progettava palazzi, hotel, piazze. Ha arredato decine di case, disegnando spazi che mescolavano la pulizia delle forme moderne con l’eleganza sobria del suo sguardo italiano.

Oggi si muove più lentamente, con l’aiuto di un bastone sottile. Mi accoglie sorridendo e mi invita a sedermi su un piccolo balcone, da cui si vedono vicinissime — le torri Petronas, come due spine dorsali d’acciaio che reggono una città che corre.

Scuote la testa con una malinconia tutta italiana.

“Sai cosa mi fa più male?” mi ha detto, guardando in basso, verso la città che non riconosce più.
“Che non è rimasto niente. Di tutto quello che ho fatto… niente. Tutto ricostruito. Rimodernato. Sostituito. Kuala Lumpur è diventata una città dove il nuovo cancella, non aggiunge.”

Sua moglie — una donna dalla bellezza quieta, di quelle che ti danno subito un senso di calma — appare con una crostata alla marmellata fatta in casa. Indossa un abito chiaro, semplice, e si muove con quella grazia quasi perduta delle signore romane di una volta.
La voce conserva l’accento buono, senza mai risultare brusco.

“Non ci sono più gli expat di una volta… E neppure gli italiani.

Oggi sono tutti ristoratori, imprenditori. Bravi, sì… ma non c’è più nulla da condividere davvero. Niente parole, niente storie.”

Le parole mi fanno sorridere, ma anche riflettere. Perché ha ragione.
Anche noi italiani — perché ci spostiamo, oggi? per l’arte, diplomazia, per curiosità, per costruire ponti o per ottimizzare, per espandere?

Ma chi sono, davvero, i nuovi expat?

Mi guardano entrambi. C’è un silenzio che pesa il giusto, quello che lascia spazio al ricordo.
Livio si commuove, mi dice che anche mio padre non c’è più. E sorride, con quella dolcezza ruvida che solo gli uomini cresciuti tra bellezza e perdita sanno conservare.

“Sono felice che tu sia venuta. Davvero.” dice. “È come se avessi rivisto pure lui, oggi.”

Parliamo. Di lui, di me, dell’Italia e della Malesia. La conversazione si muove tra ricordi e frammenti di storie incrociate. Sua moglie tira fuori un album. La rilegatura in pelle è consumata ma intatta, come certe cose ben tenute nel tempo. Sfoglio lentamente le foto: lì mio padre ha più di quarant’anni — probabilmente la mia età — sorride con una camicia chiara e lo sguardo sereno.

Attorno a noi, la casa parla. I mobili in legno scuro, i quadri con cornici dorate, le piccole sculture in legno, ceramiche asiatiche.

E mentre ascolto le storie, tra quelle mura, mi sento un po’ a casa. Come se per un attimo Kuala Lumpur si fosse trasformata in un salotto romano del secolo scorso, uno di quelli pieni di libri d’arte e ricordi di viaggi lontani.

Forse è vero. Forse i nuovi expat cercano più il comfort che la scoperta. E forse è per questo che a ottant’anni Livio sogna di tornare nelle campagne romane, in un rustico con gli affreschi sui soffitti a volta, a sentire le cicale d’agosto e uscire a comprarsi il pane. Lì dove la crescita è finita da tempo, ma le radici si sentono ancora sotto i piedi. Perché alla fine, forse, essere nomadi non significa solo partire. Ma anche – quando è tempo – tornare.

Livio non è stato l’unico vecchio amico di mio padre che ho salutato.
Anche Gabriel, venezuelano, ha riaperto per me una finestra su un passato che avevo messo nel cassetto.

Un tempo era nella carriera diplomatica, stanziato a Hong Kong. Cammina con passo lento, dopo l’infortunio, ma porta ancora con sé la compostezza dei diplomatici veri — quelli che non hanno mai avuto bisogno di cravatte per farsi rispettare.

Lo sguardo è fiero, appena piegato dal tempo. E poi c’è quell’umorismo sudamericano, tagliente ma gentile, che esce fuori all’improvviso, come un raggio in un cielo che pareva coperto.

Anche lui da più di trent’anni vive a Kuala Lumpur. “Ho i miei amici. La mia comunità. Ormai...”
Dice così, mentre con gesti lenti ma precisi serve il riso al tavolo di un piccolo ristorante thailandese dove abbiamo deciso di incontrarci dopo anni.

“Hai mai pensato di tornare in Venezuela?”, gli chiedo, mentre il curry inizia a sobbollire nel piatto.

Non alza nemmeno lo sguardo. “No.”

Pausa. E poi, come ha sempre fatto, alza un dito a mezz’aria — come a mettere una virgola tra due epoche — e mi guarda con un sorriso ironico.

“Sai quanto guadagna un insegnante a Caracas?”

Sopravvivere, oggi, in Venezuela è parola piena. Densa. Un insegnante guadagna l’equivalente di sette dollari all’ora, quando va bene.

I medici abbandonano gli ospedali. I professori correggono i compiti con le candele, nelle periferie dove l'elettricità è diventata una cosa intermittente, capricciosa.
E lui, Gabriel, come lo scrittore che ama di più Gabriel Garcia Marquez, detto Gabo, in qualche modo, è riuscito a costruire una vita altrove, con dignità. Semplice, lucida, piena di piccoli gesti che lo tengono in equilibrio.

La prima volta che lo vidi avevo appena dodici anni.

Era un gigante, ai miei occhi. Alto, bellissimo, elegante, sempre a cavallo. Fu lui a convincermi a provare l’equitazione. Frequentavamo un centro equestre che sembrava uscito da un romanzo coloniale: campi da polo, cavalli bardati con nomi inglesi, nobili decaduti — o che fingevano di esserlo — e nuovi ricchi che, tra un gin tonic e un whisky, discutevano ancora con voce bassa di affari, valute e figli spediti a studiare nelle boarding school inglesi, come si spedisce un pacco ben confezionato.

Con un cucchiaio di padthai in mano, Gabriel mi guarda e si mette a parlare dell’America.

“Io ho studiato a Denver, negli anni Settanta... lì c’era fermento, sai? C’era ancora la fame di capire il mondo. Il bisogno di leggere. Il desiderio di essere politici nel senso pieno del termine, non solo ideologici. E ora? Guarda chi eleggono. Guarda cos’è rimasto.”

Mi parla della sua avversione per Trump, con quella lucidità di chi ha vissuto la politica sulla pelle. Passa poi a raccontarmi delle lobby americane, del potere nascosto e degli interessi che muovono tutto, dalle banane al petrolio.

Poi, all’improvviso, mentre versa del curry verde in un piatto nuovo, cambia registro.

“Sai com’è nata la religione dei mormoni?”

Lo dice come si svela un trucco di prestigio. Facendo l’occhiolino.

“New York. Joseph Smith. 1820. Un ragazzino delle campagne che diceva di avere visioni. Scrisse che Dio e Gesù gli erano apparsi. Poi trovò le ‘tavole d’oro’ nel bosco, insieme a un angelo chiamato Moroni. E da lì, nacque tutto. Un impero. Una fede. Un’industria. Oggi sono miliardari, sai? Hanno banche, alberghi, catene di supermercati.”

Annuisce. “Americani...”

Lo dice con la forchetta in mano, il volto appena segnato dal curry caldo, come se stesse raccontando un dettaglio marginale di una storia molto più grande.

Eppure, in quel momento, mi sembra tutto connesso: Caracas, Hong Kong, Kuala Lumpur, Denver, Joseph Smith, mio padre, il cavallo, l’adolescenza, il senso di perdita, l’ironia.

E penso anche a quanto sono grata a Gabriel.

Perché è stato lui a presentarmi Juan, suo nipote, che ha più o meno la mia età.
Negli anni in cui tornavo in Malesia d’estate, lui era sempre lì — frequentava una scuola internazionale poco distante da casa.

Juan è stato, per tutte quelle estati, l’amico ritrovato.

Quello con cui si prendeva la macchina per la prima volta, dove si andava a bere illegalmente nascosti da occhi musulmani.

Quel giorno, lì al tavolo, tra un boccone e l’altro, ho chiesto a Gabriel il suo numero.
Lui, senza nemmeno cercare il telefono, ha sollevato un sopracciglio, mi ha puntato il dito e ha detto: “Sbrigati a chiamarlo, ché Juan non dorme da quando ha saputo che dovevi farti sentire…”

E poi ha riso, con quella sua risata rotonda, da romanzo alla Gabo.

Come a dire che certe presenze, se restano leggere e vere, sanno sempre dove ritrovarti.

La parola “espatriato” viene dal latino ex patria, fuori dalla patria. Porta con sé, già in etimologia, una separazione. Un taglio. Una frattura. Gli expat sono qualcosa però di più sfuggente: una comunità globale, fluida, a volte elitista, spesso sradicata. Vivono dentro bolle: la bolla degli internazionali, quella degli autoctoni, quella dei migranti economici. Le bolle si sfiorano, si osservano, raramente si mescolano. Si convive, ma da lontano.

E in mezzo, come funamboli sopra una linea invisibile, ci sono io e quelli come me. Stranieri dappertutto, anche dentro. Persone che si spostano per necessità, desiderio, dolore, fuga, o un po’ di tutto questo insieme.

A tratti, gli expat sono tollerati. Come i grattacieli: arredano la città, portano valuta estera, animano i centri commerciali. Ma non si confondono mai con l’ossatura del luogo.

Negli ultimi anni, persino il programma “Malaysia My Second Home” – un tempo simbolo di apertura – è diventato più severo. Oggi servono 150.000 ringgit (oltre 30.000 euro) di deposito bancario vincolato, più una prova di reddito mensile pari ad almeno 10.000 ringgit.
Per qualcuno, è poco. Per altri, è l’intera vita.

Anche il mio amico venezuelano lo sa. “Io non posso più tornare, non saprei da dove cominciare. Ma qui almeno respiro. Qui, qualcosa resta mio.” e penso che chi crede di
non aver lasciato niente, ma ha comunque conservato sé stesso, in fondo, è già una forma di patria.

Chissà se questo vale anche per Nadia.

L’ho incontrata a Madrid, durante un convegno sull’accesso alla giustizia e i minori È malese, minuta, gentile, con la testa coperta da un velo leggerissimo, indossava un baju kurung tradizionale nei toni pastello, una stoffa morbida che seguiva il contorno del corpo come l’acqua di un fiume lento. Sembrava avere poco più di vent’anni, ma la sua voce, calma e ferma, la tradiva.

Ho rivisto Nadia, una di queste mattine, per la colazione malese nasi lamak a casa dei suoi genitori, con cui vive.

L’ingresso era avvolto da felci e piante che sembravano proteggere con discrezione chi entrava. Dentro, il legno caldo, le fotografie incorniciate, i quadri con versi del Corano e il nome di Allah in calligrafia dorata raccontavano una vita fatta di memoria e appartenenza.

Nadia mi spiegava che suo padre era il maggiore di dieci figli – come mio padre, che era il terzo di nove. Le famiglie, qui, si estendevano come le radici dei banani: larghe, intrecciate, inseparabili. I suoi genitori, studiosi raffinati, avevano studiato a Londra, lavorato per agenzie dell’ONU e in università prestigiose. Mi intrattenevano con aneddoti del mondo accademico, lamentandosi – come anche il diplomatico venezuelano – di come ormai mancasse il pensiero critico, di come la politica si fosse svuotata di idealismo e contenuto.

Mi ha spiegato che suo padre è il maggiore di dieci figli – come mio padre, che è il terzo di nove. Le famiglie, qui, si estendono come le radici dei banani: larghe, intrecciate, inseparabili. I suoi genitori, studiosi raffinati, hanno studiato a Londra, lavorato per agenzie dell’ONU e in università prestigiose. Mi hanno intrattenuta con aneddoti del mondo accademico, lamentandosi – come anche il diplomatico venezuelano – di come ormai manchi il pensiero critico, di come la politica si sia svuotata di idealismo e contenuto.

Mi ha raccontato come la sua casa un tempo fosse  frequentata da expat di ogni provenienza. Gente con cui si parla per ore, anche nottetempo, anche senza concludere nulla.  Nadia vive lì con i genitori e con la famiglia di uno dei suoi fratelli, si prende cura di tutti come una figlia e una zia amorevole. Porta un cuore pieno, ma non riconosciuto. Mi ha raccontato – a bassa voce – di un uomo che amava: non era musulmano, lavorava per i diritti umani, non vuole convertirsi. La sua famiglia non approva. È difficile.

“Ci sono chiamate più grandi di noi”, mi dice mentre usciamo insieme con la nipotina più piccola – quella che, al mio arrivo, ha poggiato con grazia la fronte sulla mia mano in segno di rispetto.
“Forse siamo chiamate a fare qualcosa di molto più importante e grande che avere una famiglia o una relazione. Ma fa male lasciare andare qualcuno che si ama.”

Ho ricordato l’incontro con una mia collega dell’UNHCR, una donna musulmana che aveva amato un rifugiato. Per difendere quell’amore era stata costretta a rinunce dolorose, anche sul piano lavorativo, e aveva subito il senso di tradimento da parte di colleghi che un tempo le avevano dimostrato stima.

Pur sposata con un musulmano, non ha potuto registrare legalmente il matrimonio. Il motivo? Il marito era rifugiato. In Malesia, le unioni con rifugiati non riconosciuti dallo Stato non trovano spazio nei registri civili. È solo uno dei tanti esempi di quanto l’integrazione sia ancora, profondamente, di facciata.

Negli ultimi tempi, la Malesia ha accolto centinaia di rifugiati palestinesi, insieme alle loro famiglie, per cure mediche. All’arrivo, erano stati salutati come ospiti d’onore, emblemi della solidarietà islamica globale. Ma quei rifugiati non hanno avuto diritto legale di soggiorno. Non possono lavorare. I loro figli non vanno a scuola. Vivono, o meglio sopravvivono, rinchiusi in centri come il Wisma Transit, un vecchio hotel riconvertito in campo umanitario, dove spesso non è loro permesso neppure uscire.

Un giorno, frustrati, alcuni di loro hanno distrutto mobili, lanciato oggetti, dato fuoco a materassi. Gesti disperati, come grida mute. Scene che hanno scioccato l’opinione pubblica malese, la stessa che, inizialmente, aveva salutato l’arrivo dei palestinesi con bandiere e proclami. Nadia, che mi ha portato a vedere le bandiere palestinesi che sventolano nei quartieri dei malesi, dice che la causa è molto sentita.

Ma la narrazione nei confronti dei rifugiati può virare rapidamente,“rubano il lavoro”, “non pagano le tasse”, “sono troppi”.

È la stessa storia che si è ripetuta con i Rohingya. Prima accolti, poi ignorati, infine rifiutati. Il governo, incapace o forse non intenzionato a integrarli davvero, ha scelto la via più facile: li ha mantenuti in un limbo. Una forma di accoglienza esplicita, pubblica, ma svuotata. Nessun diritto. Nessun percorso. Solo l’illusione di esserci.

Come se bastasse dare un tetto per dire che qualcuno è stato accolto. Come se bastasse farli sparire dalla vista per sistemare la coscienza collettiva.

L’altro giorno mi sono ritrovata a camminare per il quartiere dove abitavo quando lavoravo con l’ UNHCR. Camminavo tra strade che prima conoscevo bene, oggi cambiate. Ho visto file di centri massaggi e chioschi dove a servire e pulire c’erano loro: giovani birmani, sguardi stanchi, presenze invisibili. Mi ha preso un senso profondo di disagio e colpa.

Ho cercato un posto più fedele, più pulito, privo di sfruttamento visibile, e l’ho trovato. Un piccolo centro con luci soffuse, nessuna insegna abbagliante.

Sono entrata e mi sono ritrovata catapultata indietro al 2010, quando avevo scritto la mia prima esperienza con i birmani. A quell’epoca mi era stato chiesto di valutare un appartamento in cui abitava una minore non accompagnata con dieci adulti. Dovevo convincerla a uscire.

L’addetto alla sicurezza mi aveva insegnato allora a osservare ogni dettaglio: chi viveva lì, che abitudini avevano, come erano disposti i letti, se mostrava segni di violenza. Ed eccomi di nuovo a osservare quei segni: l’angolo dell’ascensore, l’odore dei materassi isolati da tende sottili come barriere fragili tra vite spente.

La ragazza che mi ha accompagnata, con voce sottile, mi ha detto di accomodarmi. Si chiama Ninni. Viene dallo Stato del Kachin, nel nord della Birmania — una terra segnata da conflitti incessanti da anni. È minuta, ha poco più di vent’anni, eppure la sua mano è ferma, come guidata da una forza invisibile. Sapevo che l’offensiva dell’Army Indipendente del Kachin (KIA), iniziata nel marzo 2024, ha reso instabile tutta la regione con migliaia di sfollati interni in cerca di protezione.

Il conflitto, ha visto bombardamenti aerei quotidiani su popolazioni civili, scuole e moschee, mentre il KIA occupava strategiche militari.

La Cina, preoccupata per la fornitura globale di terre rare dalla regione (utile per veicoli elettrici e turbine), ha imposto pressioni diplomatiche sul KIA, riducendo le esportazioni dalla regione del 50‑89% nei primi mesi del 2025.

Un conflitto che ha trasformato il Kachin in nuovo campo di battaglia geopolitico, sacrificando vite umane e interi villaggi in nome di minerali preziosi e repressione politica.

Le ho detto che parlava molto bene inglese. L’ho ringraziata. Mi ha salutata con un sorriso che non dimentichi, perché accompagnato da quello sguardo perso, di chi lascia una casa, un genocidio e una guerra alle spalle.

E forse, alla fine, restare è proprio questo: non mettere radici nel suolo, ma nelle relazioni che resistono al tempo, al disincanto, alla distanza. Non cercare un’appartenenza perfetta, omologata, ma coltivare una presenza imperfetta, autentica, che sa stare al margine senza rinunciare alla voce.

In un mondo che ti chiede di integrarti per scomparire, che misura la tua legittimità sulla base della produttività o della cittadinanza che porti in tasca, l’unico vero gesto politico è continuare a esserci — come si è.

E l’integrazione — quella vera, non quella delle brochure istituzionali — non consiste nel diventare uguali.
Consiste nel poter restare reali, conservando le proprie crepe, le proprie culture, le proprie scelte d’amore.
Non è un processo che si impone dall’alto con quote e bandiere: è una trama delicata che si tesse ogni giorno, tra individui, tra comunità, tra memorie condivise.
Ma perché questa trama tenga, serve coraggio. Serve volontà. Serve tempo.

E in un’epoca dove tutto corre, integrare davvero qualcuno è forse l’atto più radicale e umano che possiamo ancora permetterci.

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(ENG)

There is something profoundly mysterious about the act of leaving.

It can’t be fully explained by a promotion, a love affair, or the promise of warmer weather. Beneath those lies something far more subtle, intimate, almost ineffable—an urgency, a restlessness. As if, at certain moments of life, one is summoned by a wind—much like the nomadic impulse that Chatwin described, which urges tribes to move on even from verdant oasis and silent tents.

In Malaysia, that wind blows from all directions. Kuala Lumpur stands today as one of the invisible capitals of the expatriate world. Unmarked, unannounced, as though its skyscrapers sprouted overnight without hands or stories. Yet inside those instantaneous elevators climbing to the 45th floor are lives: from Caracas, Milan, Chennai, Melbourne, Johannesburg—lives that have crossed oceans, bureaucratic labyrinths, visas and wrenching choices, just to sit at a desk or open a small cafe in a city that isn’t theirs… but for an indefinite time, will be.

Malaysia chose growth—a near‑obsession with reducing poverty, expanding infrastructure, ensuring stability. To sustain that equilibrium, it built an ethnic quota system: the Bumiputera—the Malay Muslim and indigenous majority—garner preferential access to public jobs, scholarships, housing, government contracts, even car import licenses. All framed as peacekeeping, but at a price: expression is permitted in fragments, interrupted when it edges too close to discomfort.

Still, Malaysia hasn’t stood still. Elections happen regularly. The historic 2018 government change revealed a civil society in ferment: youth activism, courageous journalism, independent courts. Yet it unfolds under a forced harmony: “don’t disturb racial peace.” That phrase justifies every censorship, every enforced silence, every half‑truth.

The Bumiputera policy traces back to British colonial logic that imported millions of Indian laborers to rubber plantations and Chinese miners to tin fields. □ Upon independence in 1957, the government preserved that extractive model—Article 153 of the Constitution enshrined ethnic privilege in quotas across exams, scholarships, permits, equity holdings. The 1971 New Economic Policy (NEP) was meant to rebalance the economy—but reinforced the legal structure of ethnicity: today even importing a car can require a Bumiputera intermediary.

Integration is preached in slogans, ceremonies, smiles, official festivals—but by nightfall, each returns to their segregated enclave: Chinese condominium in Mont Kiara; Indian temples painted bright yellow in Brickfields; Bumiputera kampungs or subsidized housing. Each with their own language, schools, places of worship, and citizen rights that exist more on paper than in practice.

Yes, Malaysian Chinese can vote and have done for decades. They make up around 23 % of the population, yet political power remains elusive. A pluralist democracy in theory, but in daily life profoundly stratified.

In such landscape, what does “integration” even mean? Who draws the boundary between assimilation and alienation? Here, integration is a fragile dance between tolerance and separation: generations of Chinese and Indians live in the country but remain labeled “minorities,” while expats—even after thirty years—remain expats, never fully “citizens.”

Then there’s Livio, a Roman architect in Malaysia for over thirty years. He once designed buildings, hotels, urban lounges—spaces that married modern minimalism with Italian elegance. Now he moves slowly, leaning on a slender olive‑wood cane. When I arrive, he greets me on a small balcony overlooking the Petronas towers—two steel spines holding up a city that keeps racing forward.

He shakes his head, weighed with nostalgic melancholy:

“You know what hurts me most? None of it lasted. Everything I built has vanished. Rebuilt. Modernized. Replaced. Kuala Lumpur became a city where ‘new’ erases more than it adds.”

His wife enters, calm and composed, carrying a homemade jam tart. She wears a simple linen dress, and speaks in the soft Roman accent of the old Trastevere, warm and precise:

“There aren’t expatriates like before… and even Italians—they’re all restaurateurs, entrepreneurs now. Good, sure—but what can we share? No words. No stories.”

She’s right. Who are the new expats, if not wanderers chasing comfort and status, not discovery or bridge‑building?

Livio looks at me, tears welling that he gently hides. He speaks of my father with reverence:

“I’m so glad you came. It’s like I saw him again today.”

We spoke, sharing stories between foil‑framed biographies and the patina of memory. His wife produced an old leather album—its pages worn but whole. I saw a photo: my father in his forties, shirt open, serene smile—my age now.

And all around us, the house narrated home: dark woods, gilt frames, small sculptures, ceramic vases. A canvas leaned against a wall—Livio still paints. For a moment, Kuala Lumpur felt like a Roman salon of the last century, full of art, books, travel souvenirs—soft memory shaping stillness.

He told me, wistfully:

“We want to return to the countryside... to the vines, the figs, the wood‑fired oven. We cooked as a family once. There was time. There was peace.”

Not only Livio but also Gabriel, another Venezuelan friend of my father, reopened a window on the past.

Once a diplomat in Hong Kong, now over thirty years in Kuala Lumpur, Gabriel moves slowly after an old injury, with the bearing of a true diplomat—self‑assured, no tie required. His gaze is proud and even in stillness, his South American wit cuts clear and unexpected.

At a small Thai restaurant, he says over rice:

“I have my friends. My community. So I stay,” he says, shrugging.
“Ever thought of going back to Venezuela?” I ask.
“No,” he replies calmly. Then raises a finger in mid‑air like a comma between lives:
“Do you know how much a teacher earns in Caracas?”

That word ‘survive’ weighs differently in Venezuela: when an educator makes seven dollars an hour, if they’re lucky, when hospitals collapse, electricity dies nightly. Yet he found a way to construct a life abroad with dignity, piece by resilient piece.

At twelve, he towered over me, beautiful and proud on horseback, teaching me to ride in a colonial‑era polo club filled with faded nobility or aspirational elite sipping gin tonics. All speaking softly of contracts, currency, boarding schools—and their exile.

Over pad thai and green curry, Gabriel turns to America: he studied in Denver in the Seventies, amid the hunger to shape politics, to read deeply, to exist beyond ideology. Now?

“Trump is a symptom. Lobbyists control everything—from bananas to oil.”

Then he shifts:

“Did you know how Mormonism began?”

He sets the fork down.

“Western New York, 1820—Joseph Smith, fourteen, claims he saw God and Jesus in a grove. Then Moroni appeared, showed him golden plates buried in a hill… By 1830 he founded the Church of Christ. Today they are global, billion‑dollar enterprises—banks, hotels, food chains.” (newyorker.com, en.wikipedia.org)

He nods.

“Americans…”

In that moment, worlds collided: Caracas, Hong Kong, Kuala Lumpur, Denver, Joseph Smith, my father, the horse, adolescence, irony, exile.

And I remembered how grateful I am to Gabriel for introducing me to his nephew, Juan—my age—who became my summer friend in Malaysia, riding together, racing through silent streets, swapping accents, secrets, childhood memories.

At the table I asked for Juan’s number. Gabriel pointed a finger:

“Better hurry—Juan hasn’t slept since he heard you might call…”
And he laughed—big, warm, like Gabo himself.

That laugh affirmed the truth: some presences linger light, but real—ready to call you back when you wander.

Between all these stories, I remain a nomad, a scholar, a voice trying to build bridges. I see how expatriates rarely leave enduring legacies—like Livio, whose buildings vanished. But the roots we don’t choose—the ones tied to love, loss, kinship—those endure.

Integration in Malaysia can be ceremonial—the flags, festivals, speeches. But when rights, citizenship, legal visibility are demanded, the script vanishes. Figures like Ninni, my UNHCR colleague, Nadia with her Palestinian banner—all challenge the liminal spaces, yet face invisible walls. Their lives are unseen, yet resilient.

Integration, then, is not assimilation—but remaining real. Not dissolving into numbers, but deciding every day what remains of who we are.

Integration isn’t imposed by quotas and ceremonies. It’s woven by courage, by shared memory, by insistence. It’s rare in a world in a hurry—but perhaps, integrating someone fully is the most radical, human act left to us.


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