La fata dell’Impero di Giada/ The Fairy of the Jade Empire
La fata dell’Impero di Giada
rituali, memorie e spiriti erranti tra Kuala Lumpur e Guandong
Quando ero
piccola, non dormivo mai la notte. Bastava che mia madre mi poggiasse nel letto
perché il pianto cominciasse, improvviso e inarrestabile, come se qualcosa di
invisibile mi spingesse via dal sonno. Fu la nonna PohPoh, a suggerire una soluzione: spostare il letto.
Lo fece mia madre, senza discutere e credendoci. E da quel giorno, silenzio.
Nessun pianto. Come se l’aria fosse diventata respirabile, come se l’anima, che
non conosceva ancora molte parole, avesse trovato pace. Quando arrivai in
Malesia avevo poco più che otto mesi. Un piccolo dolce fagiolo rosso.
Mia nonna non
era solo una donna che cucinava per tutti i suoi nove figli e nipoti. Era una
fata, dicevano. Una fata dell’Impero di Giada. Ma come in tutte le storie che
restano cucite nei sussurri familiari, la sua non era una favola felice. Si
raccontava che, disobbedendo agli spiriti custodi, fosse entrata nella Foresta
Proibita e lì avesse assaggiato un frutto che non doveva toccare. Fu così che
venne esiliata sulla Terra, a espiare colpe di cui non parlava mai. Nove vite
le sono servite. Nove cicli d’esistenza per ritornare ciò che era: una creatura
fatta di luce, intuizione, e segreti.
Quando morì,
io ero troppo giovane per capire, o meglio per crederci. Ma c’erano delle sfere
dicono chi l’ha vista andarsene. Piccolissime sfere che salivano leggere nel
cielo, e che qualcuno giurava avessero dentro il simbolo dello yin e dello
yang. Un equilibrio ritrovato, una porta che si chiudeva.
Mia nonna era
una “curandera” direbbero i latini, una donna che curava lo spirito, in cinese
si chiamano genericamente "wu" (巫), persone che
mediano tra il mondo degli umani e quello degli spiriti.
Oggi, una
delle mie cugine conserva i suoi segreti. È lei che sa dove vanno messe le
ciotole di riso, quando si bruciano gli incensi, e quale mantra recitare se il
cuore si spezza. Sono tradizioni che, forse, non hanno senso per chi guarda da
fuori. Ma io, noi, ci crediamo. Non tanto per fede, quanto per identità. In
ogni gesto, in ogni inchino, in ogni briciola di cenere lasciata dal vento, c’è
una mappa invisibile che ci riporta a chi eravamo.
I bambini, per
esempio, non devono stare fuori quando fa buio. È il tempo dei Ju Ju, -
un modo bizzarro con cui mia zia chiama gli spiriti dispettosi e talvolta
maligni. È anche il tempo dei Hungry Ghost, i fantasmi affamati. Figure
del folklore cinese, spiriti erranti di chi è morto senza amore, senza
funerali, senza pace. Spiriti che vagano tra i mondi durante il settimo mese
lunare, cercando offerte, attenzione, preghiere. Se ignorati, possono portare
sfortuna o malattie. Per questo, nel mese che precede il Ghost Festival,
non si prega al cimitero. Non si accendono incensi, non si chiama nessuno
indietro. È una pausa sacra, una tregua.
E così, quando
sono tornata al cimitero dove riposa mio padre, non ho potuto fare nulla. Solo
guardare. Ma quel luogo, a differenza di tanti cimiteri che hanno l’odore delle
piante secche, e della terra secca, e dell’abbandono, questo sembrava disegnato
da un poeta. Ruscelletti, ponti in pietra, salici piangenti che danzavano come
a cullare. E lui era lì. Sorridente, nella sua foto. Un sorriso lucente, quasi
sorpreso di vedermi, quasi complice. Eravamo nello stesso luogo, e la distanza
era diventata solo lo spessore di una lastra di granito. Ho sfiorato la sua
immagine, e nella pietra ho letto “Guangdong” e “Huizhou”. La nostra regione e città.
Le nostre radici.
Situata tra Guangzhou e Shenzhen, Huizhou è un luogo sospeso tra passato e futuro. Anticamente fu un centro culturale e commerciale, con una lunga tradizione di letterati, poeti e medici. Oggi, come tante città della Cina meridionale, è attraversata dalla modernità, ma conserva ancora angoli in cui si dice si può udire il mormorio del tè che si versa o il suono delle sculture di pietra intagliate nei vecchi templi.
È da lì che venivano i miei antenati, da lì che partì anche il nostro cognome: Liew. Un cognome che si dice fosse portato dal fondatore e imperatore della dinastia Han, un’epoca in cui il Cielo era ancora vicino e gli imperatori sognavano draghi. Il cognome è tra i più comuni tra il popolo Hakka, un gruppo etnico per l’appunto han, originario del nord della Cina ma migrato secoli fa verso sud per sfuggire a guerre e carestie. Il termine Hakka (客家), letteralmente "famiglie ospiti", descrive proprio questa loro condizione: migranti in cerca di una patria. E mi piace ricordare che gli Hakka si distinsero dagli altri gruppi Han per la lingua, i costumi e soprattutto per la forza delle loro donne. Le donne hakka erano libere, indipendenti, spesso lavoravano nei campi, gestivano le finanze familiari, e rifiutavano l’antica pratica della fasciatura dei piedi, a differenza di molte altre donne cinesi. la fasciatura , detta anche (la lotus‑binding) era un'usanza che imponeva dolore e costrizione a bambine tra i quattro e i nove anni , che avevano i piedi strettamente fasciati, con le dita piegate sotto la pianta, spezzando l'arco del piede come un fiore di loto — un simbolo di bellezza ed eleganza, ma anche di immobilità, tortura e sofferenza. Io ho il 39 talvolta il 40 di piede, piante e piedi saldi. Le donne hakka — fiera, dignitose, indipendenti — non avrebbero tollerato una pratica che rinchiudeva il corpo e l’anima. Ecco: la nostra storia scorre su quella scelta di libertà e dignità ed eravamo, siamo, in fondo, le colonne portanti della memoria. Il nome cinese che mi diede mia nonna è Pui Lee: “Bel fiore”, diceva lei. Un augurio e una visione insieme.
Forse è da lì che nasce la mia natura errante e la voglia di portare bellezza: da una stirpe di migranti. Perché gli Hakka, che dal Guangdong migrarono in Malesia, Singapore e Indonesia, portarono con sé non solo le valigie, ma una visione del mondo fatta di resilienza, ritualità e comunità. Oggi, la diaspora cinese del sud-est asiatico è un universo fatto di dialetti intrecciati, altarini domestici pieni di incensi e mandarini, e fili invisibili che uniscono figli, nipoti e avi anche a distanza di oceani.
Eppure, dentro la nostra famiglia, c’è ancora più complessità. È probabile che il nostro sangue sia già misto da generazioni. Dentro le nostre vene scorre anche un’antica linea vietnamita, difficile da tracciare, come un affluente che scompare tra le foglie. Il cognome Liew (o Liêu), comune tra gli Hakka, è diffuso anche in Vietnam, in Thailandia, in Malesia stessa.
Ci ha provato mia cugina, quella di Singapore, a trovare una mappa genetica. Si è fatta l’esame del DNA con un kit ordinato online. Risultato? Percentuali vietnamite. Ma anche lì, ogni volta che pensi di averne trovato l’origine, il letto del fiume si biforca di nuovo.
Forse è per questo che certe cose si sentono, più che si spiegano.
E così, non potendo pregare al cimitero, ho chiesto a mia cugina di portarmi al tempio dove andavano mia nonna e mio padre. È iniziato tutto col numero tre. Tre incensi legati insieme, accesi su una candela — mai spegnere soffiando, perché si allontanano gli spiriti. Davanti a ogni divinità taoista, un inchino, poi un altro, e un altro ancora. Sempre tre. Perché nel buddhismo e nel taoismo, il tre è perfetto: rappresenta il corpo, la parola e la mente; cielo, terra e umanità. È equilibrio.
Nel cuore del tempio, un monaco. Seduto su una panca più alta, ci osserva. Benedice con acqua, recita mantra antichi. Mia cugina offre tutto ciò che ha: portafoglio, chiavi, piccoli oggetti. Io, distratta, non metto nulla. Ma prendo tutta l’acqua possibile sulla testa, come se volessi lavare via anni di lontananza, colpe e domande.
Il monaco mi sorride. Mi lega al polso un filo bianco. “Quando si spezzerà — dice mia cugina — il male sarà andato via.” Forse è vero. Forse è solo un simbolo. Ma non importa. In quei luoghi, i simboli sono più forti delle parole.
Mio padre negli ultimi anni, per qualche motivo si era avvicinato anche all’indusimo, si era avvicinato a me, io che sono sempre stata una grande amante del sincretismo e del multi divino. Decido quindi di tornare in un posto che da piccola mi divertiva molto per i tantissimi macachi che vengono a rubarti gli occhiali o il cibo di mano. Si chiama Batu Caves, alle porte di Kuala Lumpur. Un complesso di grotte calcaree sacre all’induismo, consacrate al dio Murugan, il dio guerriero figlio di Shiva, signore delle battaglie spirituali, della forza interiore, del coraggio.
Ogni anno, migliaia di fedeli Thamil, per la festività del Thaipusam, scalano i 272 gradini con fardelli offerti, in segno di penitenza o ringraziamento. La sua figura, alta 42 metri, veglia dall’alto sulla la totalità del mondo e con grazia divina, e in quel giorno si onora la sua vittoria sul demone Surapadman, il trionfo del bene sul male.
Dentro la grotta, mi sono seduta in silenzio. Un foro dall’alto , come una colonna d’oro, verticale, che tagliava il buio e scavava nella roccia. Luce che entrava, una sensazione di pace che copriva come un manto la ruvida roccia di calcare. Una vibrazione densa, che ti fa tremare dentro.
Era come un anticipo di Himalaya, dove so che tornerò. Con in tasca una frase di quell’uomo che una volta mi guardò e disse: “Tu sei uno spirito libero. Vai. Fammi vedere cose che io non potrò mai vedere. Raccontami cose che non sapevo di conoscere.”
E io lo farò. Con l'incenso tra le dita, il filo bianco al polso, e la memoria della fata dell’Impero di Giada che, dopo nove vite, ha ritrovato la via di casa.
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