Mi hanno preso le impronte per ordinare del pollo/They took my fingerprints to order chicken

 

Mi hanno preso le impronte per ordinare del pollo

Dopo aver varcato il confine, il bus mi ha lasciata davanti a quello che un tempo era un punto fermo nella mappa della mia memoria. La zona commerciale dove andavo quando venivo in vacanza e ho abitato qui per un periodo quando lavoravo per l’UNHCR. Era un luogo vivo, rumoroso. Oggi sembra un rendering in 3D, una distesa levigata di vetro e cemento ipertecnologico, dove anche i piccioni volano in modalità silenziosa.

Appena scendo, aspetto alla fermata sentendomi su Marte. O forse in una simulazione.

Sopra la mia testa una superstrada sfreccia tra i palazzi come una giostra biforcata, due nastri d’asfalto incrociati a mezz’aria. E poco più in là, fra i grattacieli, svetta il colosso che chiamo “Motorola” causa la sua antenna lunga che mi ricorda i primi modelli motorola anni ’90 —ma è il Merdeka118, il secondo edificio più alto al mondo (678,9m), inaugurato nel gennaio del 2024. Un blocco di vetro che mi fa sentire piccola, obsoleta.


Mentre arrivavo in autobus, con il naso incollato al vetro, mi sono sentita come la piccola migrante che arriva in città: una metropoli  verticalizzata. Ma non verso il cielo. Verso l’assurdo.

Ho pensato subito a mio padre, che a suo modo mi stava dando il benvenuto, e non so se avrebbe applaudito questo progresso o se l’avrebbe trovato inquietante, come un Tetris impazzito che inghiotte la memoria.


Mentre aspetto seduta sopra il borsone, grondante di sudore,  la vedo piccola in lontananza , che avanza, con un braccio alzato. Fa cenno, ed io corro incontro a  mia zia, che ha sette anni più di me: shorts, caschetto, sandali. È la stessa di sempre, solo in alta definizione. “Come stai? Che vuoi da mangiare?”
ed è lì che riparte tutto.

Salgo su una macchina enorme e lucida. Così grande che quando ci salgo mi sento su una biga romana del capitalismo avanzato— guardo fuori. Niente è dove l’avevo lasciato. “Ma dove siamo?”, chiedo. “E quello?”, “Quello era Ampang Park… demolito, non c’è più.” “E lì ti ricordi c’era la scuola internazionale dove andavano i tuoi amici—” “adesso è convertito in un coworking con ristorante fusion e supermercato biologico.”

Continuo a guardare fuori, in alto, in basso con la stessa espressione di una che cerca la propria infanzia, adolescenza, anche i suoi primi anni lavorativi sotto le piastrelle di vari centri commerciali e angoli di strada.

Mentre ci muoviamo continua  la carrellata. “Hai visto quello? È il palazzo più alto, 70 piani!” – “Ah quello? Noi diciamo che ci vive Dart Fener, sai, Guerre Stellari…” Ridiamo. Io annuisco. Sorrido. Dentro, però, penso: sono ospite, ma è anche un po’ casa mia. Respiro. Rimando i pensieri occidentali.

In Italia la Malesia è Salgari, è Kabir Bedi-Sandokan, i tigrotti di Mompracem. Per anni ne ho parlato, senza che nessuno mi apostrofasse come la Perla di Labuan, ma qui, al massimo, ti rispondono che la vera fama è quella delle Petronas Twin Towers: simbolo di un paese sempre stato al crocevia culturale, politico ed economico. La Malesia, una delle storiche Tigri Asiatiche — insieme a Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud — esplose dagli anni ’70 ai ’90. Oggi è una “post-tigre”: un hub digitale dove il capitale è invisibile.



Arriviamo a casa. Un condominio come tanti altri in zona, elegante con lobby e guardie nepalesi: migranti stagionali assunti spesso per ruoli di sicurezza, a volte dopo aver pagato fino a RM10.000 di commissioni. Ottavo piano, ovviamente: il numero 8 per i cinesi è simbolo di prosperità. L’ascensore sale morbido, dopo vari codici e pass da scannerizzare. La porta si apre e siamo nel corridoio di casa che precede il salone.

Pausa. In questo condominio, almeno, scopro esserci due ascensori.  Chiedo: “Ma se uno ordina qualcosa? Tipo una pizza? Ti arriva sul tavolo di cucina!” — “Ma no…C’è un altro ascensore per quello. Un mini-pianerottolo con i contatori e le pompe antincendio. Il rider non entra, ti deposita e consegna la merce nel retro”

Già. Se ordini una pizza, te la fanno recapitare su un pianerottolo segreto, insieme al deodorante per la macchina, i vestiti per tua figlia e il tappetino yoga, la spesa. Lo stesso pianerottolo dove è concesso incontrarsi se hai da dire qualcosa al vicino o chiedere in prestito il sale.

Mi guardo intorno e penso: qui la gente si fida davvero della tecnologia. “E se entrano nel sistema e ti entrano in casa?” — “No, tranquilla. Qui è sicuro. Sei controllato, sei al sicuro.”

Sorrido. Ma dentro un brivido mi corre lungo la schiena, un pensiero clandestino che le mille telecamere che mi hanno guardato sia a Singapore, che qui, avranno già captato.

E lì comincia il dramma. Ovvero il cambio della SIM e l’installazione di varie app per potersi muovere e “vivere” in città.

A Singapore già mi avevano preso per caso umano: mia cugina, non appena scoperto che avevo una dual SIM fisica, aveva quasi pianto, perché non concepiva come non potesse esserci la funzione SIM elettronica nel mio telefono.

“C’è ancora il chip!” – “Sì,” rispondevo io- “è anche dual-sim” con estrema soddisfazione “e funziona.”

Lì, a Singapore, il mio telefono si era zuppato sotto un temporale tropicale, improvviso e violento, come solo qui sanno essere. L’avevo tra le mani come si tiene un neonato raffreddato, quando la domestica filippina — giovane, pratica, con uno sguardo che ne ha viste più lei di noi tre generazioni messe insieme — me lo strappa dalle dita e senza esitazione lo seppellisce in una ciotola di riso. Poi mi guarda negli occhi e con voce serissima dice: “Abbi fede.” E io, a quel punto, ci credo.

Nel frattempo, mentre il telefono passa la notte in terapia intensiva sotto chicchi bianchi, mia cugina ha già cominciato a sussurrare nei corridoi le sue intenzioni: “Ormai è andato… ” È questione di ore prima che mi piazzi tra le mani il suo Samsung Flip, quel telefono pieghevole che sembra uscito da un universo parallelo dove il design ha vinto la guerra alla dignità. Mi dice che è comodo, che ha l’e-sim, che “fa delle foto così belle che ti viene voglia di piangere solo per vedere come vieni.” E no, non è uno scherzo.


Fino alla fine del mio soggiorno a Singapore cerca di rifilarmelo in ogni occasione, e ancora oggi, a Kuala Lumpur, continua a scrivermi messaggi: “Stai usando il Flip, vero? Stai comunicando col telefono nuovo, vero?” Un pressing passivo-aggressivo continuo, gentile e totalizzante.

Ma io resto ferma. Come l’opossum che si finge morto. Abbracciata al mio vecchio telefono con la custodia rovinata e la doppia SIM di plastica, perché non mi fido a fare il trasferimento dati qui. Perché qui il cloud è troppo vicino alla nuvola del controllo. E perché ho ancora tutte le password scritte su un foglio. Uno di quelli piegati più volte, tipo origami della paranoia.

Ma il problema si fa sentire comunque, e peggiora, perché qui tutti vivono dentro le app. Non con, dentro. E il mio telefono, povero sopravvissuto analogico, ora deve installare l’app delle app: Grab.

Grab è una mega-matrioska digitale che regola ogni respiro urbano. Con Grab ordini cibo, taxi, spesa, medicine, cerette alle due di notte, e forse anche la reincarnazione. Ma per registrarti… servono i dati biometrici.
Sì, per ordinare del pollo fritto, vogliono la tua impronta digitale.

Mi prendono il pollice come fosse un oggetto rituale, lo girano, lo pressano con insistenza sul tasto volume, cercando disperatamente di fargli leggere qualcosa. Intanto sullo schermo, pixel dopo pixel, appare la mia impronta. La vedo formarsi. E sento una fitta, sottile ma profonda. Un piccolo tradimento. Come se avessi ceduto un frammento di me in cambio della possibilità di ordinare pollo satay a domicilio.

E mentre la mia impronta prende forma, mi sento invasa. Esposta. Un po’ violata. Un po’ stupida. Il telefono registra il mio corpo mentre il cuore si accartoccia in un attacco d’ansia digitalizzata.

Poi arriva il momento più solenne: il riconoscimento facciale. Il selfie.

“Cazzo...” penso. “Ho la fotocamera frontale spenta da mesi. Ora mi fulminano.”
Provo. Niente.
Il selfie non parte. Il telefono si rifiuta. Letteralmente.

“Mio Dio! Il tuo telefono… non fa selfie!” — gridano.
Come se fossi uscita da una grotta. O da un quadro del Quattrocento.
Io annuisco.

E in quel momento… cade il silenzio. Uno spesso.

Un silenzio carico di quel tipo di delusione che si prova quando una figlia, dopo anni di danza classica, ti guarda negli occhi e ti dice che vuole mollare tutto. Che le punte le fanno male. Che preferisce fare judo.

Tu annuisci. Sorridi. Ma dentro stai già piegando, con cura, il tutù.

E per me quel rito, non era la tecnologia. Era la sensazione di non appartenere più. Di essere un residuo organico in un mondo algoritmico.

Decido di andare in palestra, quella al piano terra con vista piscina: un modo come un altro per non pensare, almeno per un po’, alla faccenda delle impronte e dei selfie falliti. Un diversivo, nell’attesa di uscire a cena con altri parenti e altri racconti accelerati sulla modernità.

La palestra è piccola ma ben fornita, e io comincio già a considerarla la mia alleata per i giorni a venire. Un luogo dove poter simulare dislivelli nepalesi sul tapis roulant, irrobustire i miei poveri deltoidi col sollevamento pesi, e nuotare qualche vasca guardando le piante tropicali del bordo piscina.

Salgo sul tapis roulant, imposto una pendenza apocalittica e inizio a correre. E lì, inevitabilmente, mi torna in mente mio padre. Le sue ultime ore passate  in una palestra, cercando di tenersi in forma.  Mentre corro, lo guardo con gli occhi della mente e gli parlo. A bassa voce, tra me e me, ma anche un po’ a lui:
“Ma davvero, papà?- Davvero è così che si sopravvive? Correndo su una macchina che non va da nessuna parte, mentre il mondo fuori corre per davvero?”

Penso all’ordine compulsivo. Di ogni tipo. In ogni forma. In quantità industriale. Ti senti in colpa a non ordinare, non andare, non fare. E se mangi troppo, tranquillo, c’è la palestra sotto casa, quella dove sono, sempre aperta, che ti aspetta come un confessore con i muscoli.  Corro e sudo pensieri.

Altro giro di corsa: si va a cena. Cambio macchina, e neanche me ne accorgo. Salgo, chiacchiero, mi accomodo... e solo dopo un paio di minuti realizzo che è lei.
La Tesla.
Mi spiace ammetterlo, ma sì: ci ho messo il culo sopra.

Il primo campanello d’allarme mi lampeggia subito nella testa: Elon Musk. Metà genio, metà meme vivente.
Il secondo: Fratoianni. Non so perché, ma mi viene in mente come un riflesso pavloviano.

Fatto sta che per la prima volta sono dentro un’auto elettrica seria, vera, definitiva. Non una city car a batterie, ma una capsula spaziale per la classe media alta. Nessuna marcia, nessun cruscotto, nessun bottone da premere per sentire di avere il controllo. Solo uno schermo gigantesco, grosso come il televisore di un call center, che ti guarda più di quanto tu guardi lui.

C’è tutto lì: Spotify, Google Maps, meteo, calendario, stato emotivo. E ovviamente lui: l’autopilota.
Non guidi. Vieni guidato.
Se sei ubriaco, basta un tocco e la macchina ti porta a casa come un San Bernardo elettrico con il Wi-Fi. Nessuna multa. Nessuna ansia. Solo la vaga impressione che l’auto, in fondo, sappia più cose di te di quanto tu sappia di lei.

Mentre sono seduta, mi torna in mente un film con Julia Roberts: attacco hacker globale, tutte le Tesla vanno in tilt e si schiantano l’una sull’altra. Esattamente l’auto su cui sto adesso. Bianca. E silenziosa come un predatore...“macchina calda dove ti porta lo decide lei” cantava una canzone degli anni 90, lo decide lei non certe notti ma tutti i giorni se vuole.


È questo che fa paura. Non la tecnologia. La verticalità dei palazzi. Ma la velocità con cui il mondo cambia intorno a te senza preavviso. In Europa, discutiamo ancora se pagare con il bancomat o in contanti. Qui, con il pensiero ti ordini qualsiasi tipo di cibo, di ogni provenienza, e paghi con la retina dell’occhio.

E sotto tutto questo, sotto la bellezza in vetro e alluminio, sotto la corsa dei rider e l’efficienza degli ascensori, c’è una sensazione che non riesco a scrollarmi di dosso. Non è nostalgia. È spaesamento. Non tanto culturale. Esistenziale.
Questa digitalizzazione asiatica, così veloce, così lucida, ha qualcosa di magnetico e insieme spaventoso. Ha accelerato tutto: l’economia, la mobilità, le relazioni. Ma anche le disuguaglianze. La solitudine. Il controllo.

Eppure, sotto la superficie levigata, c’è ancora qualcosa che pulsa. Lo sento. Lo vedo. Minuscoli atti di resistenza quotidiana. Io, per esempio, li esprimo così: toccando un mango al mercato, provando un vestito per dire a voce alta: “Questo blu o quello rosso?” Anche se poi magari non compro nulla. Sono minuti umani.

E so che non sono sola.

In questo Paese ci sono piccoli gruppi che resistono. Gente che lotta contro la deforestazione, contro i monopoli digitali, contro lo sfruttamento. Attivisti ambientali e sindacali. ONG che combattono in silenzio, spesso in condizioni difficili. Perché qui non tutto è permesso, e non tutto è garantito.

La Malesia, da un punto di vista istituzionale, non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, quindi chi fugge da guerre o persecuzioni non ha alcuno status legale. I rifugiati qui vivono in un limbo. Non possono lavorare legalmente, non hanno accesso ai servizi pubblici, non possono mandare i figli a scuola senza rischiare espulsioni. E la burocrazia? Invisibile o brutale, a seconda di chi incontri.

I lavoratori migranti, soprattutto provenienti da Bangladesh, Nepal, Indonesia, Myanmar, sono spesso reclutati tramite agenzie opache, pagano debiti per anni e vivono sotto sorveglianza. Le violazioni dei diritti nel settore edile, domestico e della sicurezza privata sono documentate, ma raramente punite.

E intanto il Paese si vende bene. Sui cartelloni digitali scorre l’immagine di una Malesia smart, sostenibile, aperta al business.

Anwar Ibrahim — primo ministro, ex dissidente, oggi leader di una coalizione eterogenea — parla di "Malaysia Madani": una società civile progressista, etica, resiliente. Ma il governo cammina su un filo sottile: da una parte gli investitori stranieri e le big tech (Intel, Google, Microsoft) che trasformano il Paese in un hub per semiconduttori e data center, dall’altra una società spaccata tra élite urbane e classi popolari sempre più fragili.

La verità è che la crescita c’è — il PIL sale del 4,5%, la Banca Centrale mantiene i tassi, le multinazionali arrivano — ma non per tutti.

La digitalizzazione ha portato efficienza e disuguaglianza, insieme. Accesso e esclusione, nello stesso clic.

E poi c’è la terra.

La Malesia è tra i paesi con il più alto tasso di deforestazione nel Sud-est asiatico. Le foreste pluviali, ancora vive e piene di biodiversità, vengono abbattute per far spazio a piantagioni di palma da olio, miniere, infrastrutture e — ora — ai corridoi digitali.
L’equazione è sempre la stessa: il verde si sacrifica perché il 5G corra più veloce.

Ma ci sono comunità indigene che difendono le loro terre, attivisti che denunciano le connessioni opache tra business e politica, e che raccolgono dati sul campo — spesso in silenzio, a volte rischiando denunce.

E poi ci sono i bambini, rifugiati, indigeni, e i bambini sempre più vittime e senza diritti, che crescono in un sistema dove la giustizia è ancora punitiva: detenzione anche per reati minori, scarsa attenzione al supporto psicosociale in contesto dove gli abusi sono molto frequenti.  
Un mondo dove i dati valgono più delle emozioni. Dove se sbagli, paghi. Ma non impari.

E allora sì, lo spaesamento è anche questo: sapere troppo, poter fare poco, e scegliere comunque di restare svegli. Anche quando la tentazione è spegnere tutto e lasciarsi guidare — da un algoritmo qualsiasi.

E in mezzo a tutto questo, qualcuno mi scrive: “Porta un po’ di normalità. Di umanità.”

Ma credetemi, non è facile.

Perché il problema, alla fine, non è l’Asia. Non è nemmeno l’Europa. Il problema è che nessuno è preparato. Nessuno ci insegna a vivere tra due o più mondi, a riconoscere i confini mobili tra giusto e accettabile, tra diritti e algoritmi. A mediare tra il desiderio di avere tutto — subito, perfetto, in saldo — e la necessità più primitiva di restare umani

E mentre intorno tutti ricevono la cena in sei minuti netti, io cerco un po’ di realtà — quella imperfetta, lenta, che ti fa scegliere tra il peperone rosso e quello arancione, anche se alla fine non cucini nulla.

Ma almeno sei stato lì.

Presente. Vero.

Il resto… è decorazione ad alta risoluzione.


 

They took my fingerprints to order chicken

After crossing the border, the bus dropped me off at a place that once stood as a fixed point on the map of my memory: the shopping district I used to visit as a tourist and where I lived briefly while working for the UNHCR. It was vibrant, noisy. Today it feels like a 3D rendering—an expanse of polished glass and hyper-tech concrete where even the pigeons fly in silent mode.

I step off the bus, wait at the stop, and feel like I’ve landed on Mars—no, more like a simulation.

Above my head, an elevated highway races between buildings like a double helix, two asphalt ribbons crossing in mid-air. A little further on, among the skyscrapers, a monolith rises—the building I call “Motorola” because its tall antenna reminds me of those early ’90s phones. But in reality it’s Merdeka118, the world’s second-tallest building at 678.9m, completed in January 2024. A block of glass that makes me feel small, obsolete.

On the bus, my nose pressed against the window, I felt like a migrant child arriving in the city: a metropolis turned upward, not toward the sky, but toward the absurd. I thought of my father—was this his kind of welcome? Did he see beauty or horror in this Tetris-like swallowing of memory?

Sitting on my duffel bag and dripping sweat, I spot her in the distance, waving her arm. I rush toward my aunt, seven years older than me, wearing shorts and a bob haircut. High-def, and unchanged. “How are you? What do you want to eat?” Everything restarts in that moment.

I climb into a car, enormous and gleaming, like a modern Roman chariot of advanced capitalism. I look out and nothing is where I left it. “Where are we?” I ask.
“That was Ampang Park… demolished.”
“And that building?”
“That was the international school your friends attended—that’s now a coworking space with a fusion restaurant and an organic supermarket.”

I stare outward, up and down, searching for childhood, adolescence, those early UNHCR days beneath tiles and corner kiosks. The ride continues. “See that one? Seventy floors—tallest in the city.”
“Oh, that? Locals say Darth Vader lives there, from Star Wars.”
We laugh. I nod. I smile—but inside I feel like a guest and also a reluctant homecoming. I breathe, suppressing my Western judgments.

In Italy, Malaysia is Salgari, Sandokan, that hero played by Kabir Bedi. For years I spoke of it but never was called the “Pearl of Labuan.” Here, the country is best known for the Petronas Twin Towers—a symbol of its crossroads identity. Once a Southeast Asian “Tiger” alongside Singapore, Hong Kong, Taiwan, and South Korea in the 1970s–90s, Malaysia today is a "post-tiger": a digital hub where capital is invisible.

We reach home: a condo like many others, elegant lobby, Nepalese guards—seasonal migrants often paying up to RM10,000 in recruitment fees. We ride the elevator to the eighth floor—the number of prosperity—through passcodes and scanners until the door opens onto the corridor outside the living room.

There are two elevators here, I realize.
I ask: “If someone orders pizza, does it arrive in the kitchen?”
“No—there’s a separate service lift. It stops at a hidden corridor with meters and fire pumps. The rider can’t enter. They leave your order there.”
So if you order pizza, it arrives on a secret landing, along with deodorant, your daughter’s clothes, yoga mat, groceries—exactly where you meet a neighbor to borrow some salt.

I look around: these people truly trust technology.
“What if someone hacks the system and comes into the apartment?”
“Relax. It’s safe here. You’re being monitored, so you’re secure.”

I smile politely, but a shiver runs down my spine. I wonder how many cameras—here, in Singapore—already captured every step of mine.

And that’s where the drama begins. Switching SIM cards, installing apps, attempting to "live" in this digital city.

In Singapore, they already had me pegged as an oddity: the moment my cousin learned I had a physical dual-SIM phone, she nearly cried—how could I not have an e‑SIM?

“There’s still a chip in it!”
“Yes,” I replied proudly, “dual‑SIM, and it works.”

Then came the storm. My phone soaked in a tropical downpour. I held it like a fragile infant when the Filipino housekeeper—young, efficient, wise beyond all our generations—grabbed it from me and buried it in a bowl of rice. She looked me in the eyes and said, “Have faith.” And at that moment, I believed her.

While my phone lay overnight in its rice incubator, my cousin whispered conspiratorially: “It’s gone anyway…” Hours later, she pressed a Samsung Flip into my hands—one of those foldable phones seemingly from a parallel universe where design prevailed over dignity. She told me it has an e‑SIM and “takes pictures so beautiful you’ll start crying at how good you look.” She wasn’t joking.

Until the very end of my Singapore stay, she tried to foist it on me. Now, in Kuala Lumpur, she still messages: “You’re using the Flip, yeah? We set it up, right?” A relentless, passive-aggressive, kind takeover.

But I stand firm—like an opossum playing dead. Clutching my battered old phone with its plastic dual‑SIM, afraid to migrate my data here, where the cloud drifts too close to the fog of surveillance. I even keep all my passwords scribbled on paper—folded, crumpled origami of paranoia.

Still, the pressure builds: here everyone lives inside apps. It’s not a tool; it’s life. So my analogue phone must install the ultimate app: Grab.

Grab, that digital matryoshka that regulates every urban breath: food, taxi, groceries, medicine, midnight waxing—maybe even your reincarnation. But to register, they require biometric data. Yes, to order fried chicken, they want your fingerprint.

They take my thumb as if in a ritual, turn it, press it on the volume button until the sensor reads something. Pixel by pixel, my imprimatur appears on the screen. I feel a pang—tiny, deep—a betrayal. Like giving a piece of myself just to get chicken satay delivered.

As the print forms, I feel invaded, exposed, a little violated, a little stupid. My phone logs my body; my heart crumbles in a digital anxiety.

Then the grand finale: facial recognition. Selfie mode.

“Fuck…” I think. “My front camera has been broken for months. They're going to kill me.”
I try. Nothing. The phone refuses. Literally.

“Oh my God! Her phone… doesn’t take selfies!” they exclaim—like I’ve stumbled out of a cave or a medieval painting.

I nod. In that moment… a thick silence descends.

A silence laden with the kind of disappointment felt when your daughter, after years of classical dance, looks you in the eyes and says she wants to quit—her pointe shoes hurt, she’d rather do judo.
You nod. You smile. But inside, you start folding the tutu with care.

For me, this ritual wasn’t about tech. It was about feeling like I no longer belong—an organic remnant in an algorithmic world.

So I decide to go to the gym, the one with a pool on the ground floor—to distract myself from fingerprints and failed selfies. A waiting room of sorts before dinner with other relatives and their accelerated tales of modernity.

It’s small but equipped, and I already think of it as my ally. A place to climb Himalayan gradients on a treadmill, to build up my poor deltoids with weightlifting, to swim laps while gazing at tropical plants that seem real but aren't.

I climb onto the treadmill, crank it to an apocalyptic incline, and run. Inevitably, thoughts of my father return—his final hours spent here, attempting to stay in shape. I speak low, between myself and him:
“He really believed this was survival—running on a machine that doesn't go anywhere, while the real world runs as fast as it can?”

I think of compulsive ordering—every format, every variety, industrial quantities. You're made to feel guilty if you don’t order, don’t go, don’t do. And if you do eat too much, well—there’s that gym downstairs, always open like a confessor of muscle. I run, I sweat, I think.

Another sprint later: time for dinner. I switch cars again without noticing. I chat, sit—only after a couple of minutes do I realize it's her:

The Tesla. Yes, I admit it: I’m sitting in it.

The first alarm bell is mind: Elon Musk—semi-genius, semi-meme. The next is Fratoianni—a reflex I can’t explain.

Here I am in a serious electric car: no city-battery, but a spaceship for the upper-middle-class. No gears, no dashboard, no tactile controls—just a cavernous screen the size of a call-center monitor, staring at me more than I stare at it.

There’s Spotify, Google Maps, weather, calendar, even emotional state. And of course—autopilot. You don't drive; you're chauffeured.
If you’re drunk, you can send the car home like a Wi‑Fi-equipped Saint Bernard—no ticket, no hassle, just the unsettling sense your car knows more about you than you know about it.

As I sit, I recall a Julia Roberts movie: cyber attack, Teslas spiraling, crashing in a white volley—exactly the model I’m in. White. Quiet. Like a predator.

“That hot car takes you where it pleases,” crooned a ’90s song. Who decides now? It could be the car, any evening.

What frightens me is not the tech or vertical cityscape—it’s that the world changes around you without warning. In Europe, we still debate cash vs. card. Here, you think and dinner arrives, paid by retina scan.

Beneath the polished veneer of glass, under the rush of riders and elevator efficiency, something stays with me. Not nostalgia. But displacement—existential more than cultural.
This digital leap in Asia is magnetic and terrifying, accelerating economy, mobility, relationships—but also deepening inequality, solitude, control.

Yet beneath that smooth layer, there is still a pulse—acts of quiet rebellion. I show mine by touching a mango in the market, trying on a dress and saying out loud, “This blue or that red?” even if I end up buying nothing: human minutes.

And I know I’m not alone.

There are small groups in this country standing firm—environmental defenders, digital-rights advocates, anti-exploitation activists, labor unions whispering their frustrations. NGOs working in shadows, sometimes risking persecution.

Malaysia hasn’t signed the 1951 Refugee Convention, so refugees here have no legal status. They can’t work, send children to public school, or access basic services—living in a legal limbo.
Migrant workers from Bangladesh, Nepal, Indonesia, Myanmar often enter through opaque agencies, paying debt off for years, under constant surveillance. Documented abuses on construction sites, in domestic work, and private security go punished rarely.

Yet the country sells itself well: billboards spin an image of a smart, sustainable, business-friendly Malaysia.
Prime Minister Anwar Ibrahim—a former dissident and current coalition leader—promotes “Malaysia Madani,” a progressive, ethical, resilient society. The government walks a tightrope: balancing foreign investors and Big Tech (Intel, Google, Microsoft) transforming the country into a semiconductor and data-center hub, and a society divided between urban elites and increasingly vulnerable working classes.

Yes, growth is real—the economy expanded, the central bank holds firm, multinationals arrive. But not everyone benefits.
Digitalization delivers both efficiency and inequality. Access and exclusion travel together in a single tap.

And there’s the earth: Malaysia now faces one of Southeast Asia’s highest deforestation rates. Ancient rainforests full of biodiversity are cleared for oil palm, mining, infrastructure—and even digital corridors. The equation repeats: green sacrificed so 5G may race faster.

Still, indigenous communities defend ancestral lands; young activists expose murky deals between business and politics; NGOs collect field data—often aligned with danger.

Then there are children—refugee minors with no legal status, local kids in rural or impoverished areas who face a punitive justice system. Detentions for trivial allegations, minimal psychological support—and abuse that thrives in silence.
A world where data is more valuable than a child’s tears. You err, you pay. You rarely learn.

And so my displacement returns: knowing too much, changing too little, choosing to stay awake—even when sleeping through life looks easier.

Someone messaged me: “Bring a bit of normality. Of humanity.”
I’m trying.

Tomorrow, if I can, I’ll walk.
I’ll breathe. I’ll see. I won’t order anything.

While everyone else gets a six-minute dinner delivered, I’ll chase a fragment of reality—imperfect, slow, the kind that lets you debate red or orange bell peppers even if they never hit your pan.

At least you were there.
Present. Real.

The rest… is high-definition ornamentation.


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