Nelle radici, la mia chiamata/ The calling liaise in our roots
Il sentiero si apre nella giungla come una ferita verde. È piccolo, segnato solo da pezzi di nastro adesivo colorato, come briciole lasciate da un viaggiatore smemorato. Non c’è guida, se non l’istinto. Le liane pendono come corde molli, ci si aggrappa, a volte invano. Le palme, invece, non vogliono essere toccate: spinate, si difendono come certi cuori chiusi da anni.
Cammino con mia cugina,
esilissima. Ha il passo leggero, eppure la sento affannare. Mi porge la mano
quando il sentiero sale dritto come un pensiero difficile da affrontare. Le
radici sporgenti disegnano i gradini che la terra ci offre — o ci impone. Non
ci sono appigli, solo ascolto.
Intorno, la foresta canta. Felci
che sussurrano, fruscii che sembrano parole dimenticate. Poi, un rumore
lontano. Metallico, fastidioso. Una ruspa. Un gigante cieco che avanza.
Dimentico il presente, e sento la ferita del mondo: la deforestazione, lo strappo,
l’irreversibile. Eppure siamo lì, io e lei, due anime che cercano qualcosa.
Forse una risposta.
Tornando indietro, con la pelle
sporca e le gambe stanche, lei mi guarda:
"Ti va se registriamo una
lezione di yoga insieme?"
Nel suo sguardo c’è quella forza
gentile di chi è appena tornato da lontano, l’Australia nel suo accento, ma un
desiderio radicato di trovare un posto qui, ora.
Fa pole dance, e ogni volta che
si solleva dal suolo, pare sfidare la gravità. Il suo cuore la tiene in alto. È
lì la sua forza.
Poi, come un gioco sacro, mi fa
scegliere una carta da un mazzo.
Esce una dea che cavalca uno yak.
“Smetti di spiegare tutto con la
logica,” mi dice la carta, “e vedrai la tua chiamata.”
Non so se mi commuovo per la
carta, o perché qualcuno mi sta vedendo davvero.
Qualche giorno dopo, un parente –
un chiropratico quasi mistico – mi accoglie in un ufficio che odora di incenso
e libri letti troppe volte.
"Ti snocciolo tutta,"
dice ridendo, mentre mi tira la schiena e mi fa schioccare l’anima.
Poi mi poggia delle campane
tibetane lungo la colonna vertebrale. Vibrano così forte che mi trafiggono.
"Non ti conosco molto,"
mi dice guardandomi serio, "ma so che là fuori sei sempre stata sola.
Eppure sei qui. C'è forza in te, se solo la vedessi."
Mi lascia un bracciale
d’ametista. “Alterna il polso, a seconda se vuoi ricevere o donare energia.” Lo
metto, senza sapere cosa aspettarmi.
Un’altra cugina, quella che parla
con spiriti e animali guida, mi offre
messaggi dall’alto. Dice che ho dentro qualcosa che pulsa, un fuoco calmo.
E poi uno zio, occhi stanchi ma
lucidi, con un fare frenetico di quando aveva ancora vent’anni, mi dice di essere una bodhisattva.
Mi racconta del mio papà, quando
era piccolo. Di come rifiutò di pagare danni a scuola per qualcosa che non
aveva fatto. Di come pedalava ogni giorno per andare a nuoto o a scuola,
scegliendo Giurisprudenza non per ambizione, ma per giustizia.
“Vedi,” mi dice alzandomi il
braccio, “siete uguali. Anche tu combatti. Anche tu ami, come lui, chi non ha
voce. Viva la Palestina”
Mi si stringe il petto, ma
sorrido con tutti i denti. Lui non c'è più, ma la sua voce, mi accorgo, è in
molte persone che incontro.
E' con una zia che il cerchio si è chiuso con dolcezza.
Un tempo fioraia in un piccolo chiosco accanto al mercato, oggi sistema le
composizioni solo per sé, per la casa, per le giornate in cui serve ordine e
bellezza.
Mi ha portata a vedere il vecchio banco dove vendeva: le piastrelle scrostate,
l’angolo ancora profumato, come se i gigli ci fossero ancora.
Poi mi ha preso per mano, con quel tocco leggero delle donne che non hanno mai
smesso di prendersi cura, e mi ha detto:
“Vieni, ti faccio vedere dove
abitava tuo nonno.”
La casa è ora un centro estetico.
Sul vetro campeggia una scritta dorata che promette ringiovanimento. Ma io, in
quel cortile, non ho visto che infanzia:
il retro dove giocavo con lo skate con le mie cugine, il pesce gatto che nuotava lento in una
vasca troppo piccola, il nonno col pancione nudo che cucinava rumorosamente,
tra vapori e pentole di metallo.
Non sapeva l’inglese, ma ci chiedeva — con voce bassa e dolce — di
massaggiargli la testa, le spalle, e rideva come un bambino quando lo facevamo.
“Sai che cucinava anche
pipistrelli?”, mi dice zia, mentre ride, un po’ imbarazzata.
Lo sapevo. Eppure lo avevo dimenticato.
Come certe immagini che si nascondono nei sogni e poi tornano, precise.
Stringo quel ricordo come si
stringe un fiore secco tra le pagine. Non profuma più, ma racconta. E quella è
la vera eredità: non le foto, non le case, ma i gesti che ci hanno cresciuto.
Gli zii, ognuno a suo modo, hanno
tessuto questa mappa affettiva che mi ha protetta nel tempo. Sono una
generazione in bilico: prenotano su app, ma cucinano a occhio. Mangiano quinoa,
ma si emozionano per un piatto di riso all'uovo come quello di un tempo.
Quando dico loro:
“Andiamo a cercare i piatti che
papà amava...”
…le loro facce si illuminano e mi accompagnano pr un pellegrinaggio culinario, che è durato tre settimane.
E lì, infine, seduti attorno a un tavolo
di formica, mentre il durian si apre sotto le mani, tra le spine, per liberare
la sua dolcezza nascosta, qualcuno sussurra:
“Se solo tutti avessimo ascoltato
il suo silenzio… quella richiesta di fermarsi, e godere delle piccole cose.”
Prima di attraversare un altro
confine, prima di tornare a un tempo accelerato, stringo al polso il rosario di
giada che era di mia nonna.
Lo porto con me come si porta un
passaporto invisibile.
Non sono andata per trovare, ma per ricordare quello che già c’era. Una
famiglia, diversa, lontana, delle persone e una città, tutti cambiati, che però
parlano di me, della mia storia, e di come sono, della mia eredità.
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ENG
Of course — here is your passage translated into English, staying faithful to your original style: intimate, lyrical, with a touch of quiet reverence and rooted emotion. I've maintained the rhythm, enriched where necessary, and ensured the tone reflects both remembrance and discovery.
In the Roots, My Calling
Around us, the forest sings. Ferns whisper. The rustle of leaves sounds like forgotten words. Then, far off, a mechanical growl—a bulldozer. A blind giant approaching. I lose track of the present and feel the world’s wound: deforestation, rupture, the irreversible.
And yet, there we are—just the two of us. Two souls searching for something. Perhaps a question. Perhaps a name.
On the way back, skin sticky, legs sore, she turns to me and says:
“Want to record a yoga class together?”
“Stop explaining everything with logic,” the card says.“And you will hear your calling.”
I don’t know if I’m moved by the card or because, in that moment, someone is truly seeing me.
A few days later, a relative—a chiropractor with a slightly mystical air—welcomes me into his studio, which smells of incense and well-thumbed books.
“I’ll crack you open,” he says, laughing, as he stretches my spine and snaps my soul back into place.He lines Tibetan bowls along my back. They vibrate so deeply I feel pierced.
“I don’t know you very well,” he tells me, serious now.“But I know you’ve always been alone out there. And yet—you’re still here. There’s strength in you, if only you could see it.”
He gives me an amethyst bracelet.
“Switch wrists—depending on whether you want to receive or to give.”I put it on, not knowing what to expect.
“You see,” he says, lifting my arm,“you’re the same. You fight. You love, like he did—those who have no voice. Viva Palestina.”
“Come, I’ll show you where your grandfather used to live.”
He didn’t speak English, but would call us in that low, sweet voice, asking for shoulder and head massages.
“You know he used to cook bats, too?” Aunt Lina tells me, laughing with a mix of embarrassment and pride.I knew. But I had forgotten.Like the images that hide in dreams and then return, clear as glass.
When I say:
“Let’s go find the dishes Dad loved...”…their eyes light up like the golden glow in old restaurants.
And there, gathered around a wobbly plastic table, as the durian splits open in our hands, its thorny shell guarding a sweetness you wouldn’t expect, someone whispers:
“If only we had all listened to his silence…that plea to stop, and cherish the small things.”
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