Tutto il mare che non vedi/All the Sea You Cannot See

(ITA)

Tutto il mare che non vedi

E i fantasmi sotto la sabbia

06.07.2025 – Singapore

La sveglia non serve, quando hai il jet lag come compagno di viaggio. Sono le 5:30 di mattina e già il corpo pulsa sotto la pelle, surriscaldato. Singapore si sveglia presto, ma io sono in anticipo persino su di lei.

Cerco sollievo nello yoga, sul pavimento ancora fresco della casa. Il respiro si inceppa tra pensieri che non si vogliono quietare. Provo a meditare, ma il frinire dei primi insetti e il peso del sonno interrotto rendono la mente porosa.

Poi, un rumore lieve di passi: è la piccola. Occhi gonfi, capelli spettinati, si aggrappa a me. Per evitare che svegli tutti, raggiungiamo un compromesso. Le chiedo di prepararmi la colazione. La prima della giornata.
Sale su uno sgabello, decisa e fiera. Le sue manine pasticciano burro di arachidi su due fette di pane bianco. Io nel frattempo mi preparo la moka — un caffè IKEA, certo, ma è l’unico che ho trovato. E va bene così.

C’è felicità anche in questo. In una colazione inventata tra sonno e umidità.

Poi, come accade ogni domenica, inizia l’andirivieni. Famiglie che si organizzano come piccole truppe in partenza: borse termiche, zaini pieni di giochi, snack e creme solari.
Per noi italiani è quasi un rituale: andare al mare significa gesti conosciuti, memorie automatiche.
Eppure qui, a Singapore, non esistono “stabilimenti balneari” nel senso nostro. Niente cabine, niente ombrelloni numerati, niente nonni con la Settimana Enigmistica.

Mi torna in mente l’estate dell’adolescenza, quando i miei coetanei si abbronzavano sul litorale tirrenico o all’Elba, mentre io sguazzavo nelle piscine condominiali di Kuala Lumpur. Quando andava bene, finivamo su qualche isola, dove il sole bruciava troppo per stare in spiaggia.
Perché all’equatore il sole non accarezza: colpisce. Brucia, cuoce, cuce sulla pelle le spezie della cena del giorno prima.

Prima della spiaggia, però, la nostra tappa è al mercato coperto, in particolare l’equivalente di un bar di quartiere: rumoroso, affollato, affettuoso, ovvero il Kopitiam.
Kopitiam è un termine nato dal malese “kopi” (caffè) e dal dialetto cinese Hokkien “tiam” (negozio). È l’essenza del Sud-Est asiatico: tavoli in plastica, piatti comuni, odori forti.
La colazione è un rito popolare e preciso. Toast grigliato, tagliato a quadrati, spalmato di margarina e kaya, una marmellata dolciastra a base di cocco e uova. Il tutto rigorosamente da "pucciare" in uova semi-cotte, con salsa di soia e pepe bianco. Assieme si beve kopi-o (nero), kopi-c (con latte condensato) o kopi peng (con ghiaccio).



Una volta, un mio ex fidanzato si innamorò follemente di questa colazione. Credevo davvero potesse amarmi. Poi si rifiutò di assaggiare il durian, il famigerato frutto dall'odore letale. Capì allora che era un uomo piccolo. In Asia, se non affronti un durian, non affronterai mai una relazione!

Dopo colazione, ci mettiamo in macchina. Il tragitto verso Sentosa è breve, ma sembra un viaggio. Salendo la collina, mi viene in mente la storia che pochi ricordano: questa “resort island” era una base militare britannica. Il suo nome originario era Pulau Blakang Mati, “l’isola dietro la morte”. Nel 1972 fu ribattezzata Sentosa — “pace” — nel tentativo di trasformare il passato in un pacchetto vendibile. Il Dio Marketing.

Oggi ospita bar, resort di lusso, finti tramonti in cartapesta. Ma se gratti la superficie, resta quella che è sempre stata: una fantasia convertita in intrattenimento. Con Mojito a 18 dollari singaporesi.

Scendiamo verso Siloso Beach. Davanti a me, orde di giovani si fotografano come se fossero ai Caraibi. In posa, col filtro giusto, con l’espressione giusta. Mi chiedo come facciano ad avere tanta memoria nei telefoni. E così poca nella testa.

Guardo quella sabbia bianca. Finta. Arrivata da altri luoghi, da altri corpi, da altri ecosistemi.



Siloso Beach, come buona parte delle coste di Sentosa, non è una spiaggia naturale, ma un prodotto del più ambizioso progetto di “terraformazione urbana” del Sud-Est asiatico.
Singapore ha conquistato il suo territorio al mare, palata dopo palata, trasportando sabbia per costruire coste dove prima c’erano solo scogli o acqua salmastra.

Secondo il New York Times, Singapore è il più grande importatore mondiale di sabbia.
Dagli anni Sessanta, ha aumentato la sua superficie di oltre il 25%. Un quarto della nazione di oggi era, fino a ieri, mare.

E per realizzare questo sogno urbano — fatto di resort, moli, autostrade e spiagge tropicali — ha consumato milioni di tonnellate di sabbia. Importata soprattutto dalla Malesia e dall’Indonesia, ma anche, in passato, da Cambogia, Myanmar e Vietnam.
Ogni grano qui sotto i miei piedi, ogni centimetro di quella sabbia chiara e perfetta, è stato strappato a un’altra riva.
Un’azione che ha avuto conseguenze ambientali devastanti.

In Indonesia, il dragaggio marino ha causato l’erosione di intere coste. Alcune isole, semplicemente, sono scomparse dalle mappe. Il delicato equilibrio tra sabbia e marea è stato spezzato. Le comunità costiere — pescatori, coltivatori di alghe, piccoli commercianti — si sono ritrovate con la spiaggia divorata dal mare e i fondali alterati al punto da rendere la pesca impossibile.

Gli impatti sono molteplici, dall' erosione costiera accelerata, che rende i villaggi vulnerabili all’innalzamento del mare alla distruzione di habitat, come praterie di fanerogame marine e barriere coralline. Dal declino della pesca, per la perdita dei banchi ittici all' inquinamento dell’acqua, causato dalla sospensione dei sedimenti durante il dragaggio.

E tutto questo, per realizzare spiagge in cui le famiglie possano fotografarsi su una sabbia “da cartolina”.

Nel 2003, di fronte al disastro ambientale, l’Indonesia aveva imposto un divieto totale di esportazione di sabbia marina. Ma nel 2023, il governo ha riaperto il mercato, attratto dalla possibilità di guadagni rapidi. Dietro questa decisione i soliti noti: compagnie minerarie, politici locali, esportatori. Singapore, naturalmente, è tornata uno dei principali acquirenti.

Sotto ogni ombrellone di Sentosa, dunque, c’è una storia che arriva da lontano. Ma non la troverete scritta nelle brochure. Infatti Singapore costruisce paradisi su sabbia che non le appartiene. E mentre la città cresce in altezza e superficie, altrove scompaiono i villaggi.

Ma qui, nessuno lo vede. O non vuole vedere.

In piedi su quella sabbia chiara — ruvida, calda, importata — il pensiero mi graffia: a Gaza, in questo momento, non c’è più nemmeno sabbia. Solo rovine e macerie, una terra strappata via, centimetro dopo centimetro, da bombe e occupazioni.

Mi torna alla mente quella proposta grottesca fatta da Donald Trump: trasformare Gaza in un resort, in una zona turistica patinata, come se l’inferno potesse diventare Instagram-friendly. Mi sembrò una bestemmia.

Eppure ora, in questa distanza scomoda, in questo senso di colpa che mi accompagna come il sudore sulla schiena, penso una cosa: se mai ci fosse un gesto concreto di restituzione, se mai qualcuno dicesse “ampliamo Gaza, ridiamo terra al suo popolo” — allora sì, forse, potrei accettare che si porti sabbia. Non per costruire un’altra Sentosa. Ma per ridare respiro a una terra che da decenni vive in apnea.

E proprio quando penso di aver toccato il fondo del paradosso, ne emerge un altro. Singapore importa ed esporta: rifiuti — o meglio, li brucia e li seppellisce. Lo fa in un altro luogo invisibile: Semakau Landfill. Ed è lì che finisce tutto. Anche il cartoccetto stropicciato che il piccolo Renè, poco fa, mi ha porto con aria confusa: “Where do I throw this?”.

Guardo intorno: tre bidoni marroni, con un adesivo ciascuno di colore diverso. Un tentativo. Poi un bidone, del generico evidentemente, colmo e traboccante. 
Un ragazzo che corre con mia cugina, l'altra mattina, se n’era lamentato: “Non si sa mai dove buttare cosa, e poi alla fine buttano tutto insieme.”
Ha ragione. La raccolta differenziata a Singapore è un’idea vaga. Il sistema, dicono, è efficiente perché tutto finisce negli inceneritori.

A prima vista, Semakau potrebbe sembrare un’isola come le altre: vegetazione rigogliosa, mare blu, uccelli che nidificano.
In realtà, è l’unica discarica di Singapore, costruita nel 1999 a partire da un villaggio costiero.
Circondata da un argine impermeabile lungo 7 km, accoglie ogni giorno oltre 2.000 tonnellate di ceneri, prodotte dall’incenerimento dei rifiuti urbani nei quattro impianti della città.


Singapore incenerisce l’80% dei suoi rifiuti: è un sistema centralizzato, pulito, altamente efficiente — almeno all’apparenza. E Semakau costituisce l’ultima fermata, il fondo del pozzo, il punto cieco della città perfetta.

Ogni giorno, dalle viscere della metropoli, partono le chiatte cariche di cenere.La chiamano bottom ash, un nome tecnico e disinfettato per ciò che resta delle nostre abitudini. Sono i resti polverizzati di tutto quello che è passato per gli inceneritori — plastica, cibo, tessuti, elettronica — bruciato in giganteschi forni che trasformano rifiuti in elettricità e fumo.

L’isola è stata spesso presentata come un esempio di sostenibilità: ci sono progetti di recupero di mangrovie, trapianti di coralli, e zone aperte alla visita pubblica — ma pur sempre una discarica, che sta per esaurirsi: entro il 2035, secondo le stime attuali, Semakau sarà piena. Poi?

Ogni giornata perfetta, ogni picnic a Siloso, ogni toast al kopitiam, ogni giocattolo comprato di fretta al supermercato — tutto ciò finisce in fumo, e poi in cenere e polvere.

Una polvere che non scompare. Una polvere che si deposita. Una polvere tossica.

Mi accorgo che Renè mi sta ancora fissando e non ha buttato il cartoccio. Lo stringe nella mano, come fosse un oggetto prezioso.
Lo accompagno al contenitore grigio, con disappunto perchè non è nè quello della carta, nè quello dell'organico. Lo vedo gettarlo dentro con un  gesto minuscolo che condensa il paradosso di questa città: lucida, lucente, ma fondata su una cenere che nessuno vuole nominare.

Singapore, maestra nell’occultamento è la perfezione urbana fatta di ciò che non si vede.

Sotto la sabbia, coste erose.
Sotto i giardini verticali, ceneri tossiche.
Sotto i claim pubblicitari sulla sostenibilità, dati ancora troppo scomodi.

Siloso Beach è bella, certo. Ma non è sua.
Semakau è efficiente, sì. Ma non è eterna.

Del resto a chi fa piacere vedere i propri scarti — materiali, morali, ambientali? Li copriamo di ordine. Li spostiamo altrove. Li rendiamo invisibili.

Ma prima o poi, la sabbia finisce. E le ceneri tornano a galla.

(ENG)

All the Sea You Cannot See

And Other Ghosts Beneath the Sand

06.07.2025 – Singapore

One does not need an alarm clock when jet lag is one’s companion. At 5:30 am, my body is already throbbing under the skin, unnaturally warmed. Singapore rouses early, but today I’m ahead of even her.

I unroll my yoga mat on the still-cool wooden floor. I attempt to breathe slowly, to still the mind, but the pattering hum of cicadas and the weight of disrupted sleep make every thought porous.

Then comes a small shuffle of feet—it’s my little girl. Sleep-worn eyes, tousled hair, clinging to me. To avoid waking everyone, we reach a quiet pact: she will make me breakfast. The first of the day.

She climbs onto a stool, determined and proud. With sticky fingers, she spreads peanut butter on two slices of white bread. Meanwhile, I brew coffee in my trusty IKEA moka pot—certainly not exotic, but it's the only one I found. And that’s enough.

There is happiness here, of a quiet, domestic kind—found in something as simple as a makeshift breakfast amid humidity and half-dreams.

Soon, the household stirs. Cool bags are packed, backpacks stuffed with toys, snacks, sunscreen. Families file out like well-drilled units heading for the beach. For Italians, this is ritual—automatic gestures, fond memories. But in Singapore, there are no beach resorts as we know them: no numbered cabanas, no parasols lined in formation, no grandparents thumbing through a puzzle magazine.

I remember summers from my youth—my schoolmates sunning themselves on Tyrrhenian shores or Elba, while I paddled in Kuala Lumpur’s communal pools. Occasionally, we made it to islands. The equatorial sun there doesn’t caress—it strikes. It burns, cooks; it embeds last night’s spices into your skin.

Before hitting the beach, we visit a kopitiam, a hawker-style coffeeshop feature of Southeast Asia: plastic tables, shared plates, bold aromas. The name combines Malay “kopi” (coffee) and Hokkien “tiam” (shop). The breakfast is a precise ritual: charcoal-toast cut into neat squares, slathered with margarine and sweet kaya (a coconut–egg jam), dipped into barely set eggs seasoned with light soy sauce and white pepper. Beverages follow tradition—kopi‑o (black), kopi‑c (condensed milk), or kopi peng (iced).

A former beau once swooned over this breakfast. I foolishly thought it might mean love. But he refused to taste durian—the notorious, pungent fruit that reveals character. In my mind, if you can’t face a durian, you can’t navigate love.

Breakfast done, we pile into the car. The short journey to Sentosa feels vast. Climbing the hill, I’m reminded: this “resort island” was once a British military base. Its old name? Pulau Blakang Mati—“Island Behind Death”. In 1972, it was rebaptised Sentosa, “peace”—a rebranding of history for sale.

Today, Sentosa teems with bars, resorts, contrived sunsets—and £18 mojitos. But dig beneath the surface, and it’s the same old fantasy, reconditioned as entertainment.

We make our way to Siloso Beach.

Young people flock the sand, posing as though in the Caribbean: practice for the perfect selfie, with just the right filter, the right expression. Their telephones brim with data, while memory—real memory—remains shallow.

I study the pale sand under my feet. Pristine—but false. Imported from other shores, other bodies, other ecosystems.

Siloso Beach, like much of Sentosa, is not natural at all. It is the product of Southeast Asia’s largest urban “terraforming” project. Singapore has been reclaiming land since the 1960s—by the scoop, by the bargeful, by army of dredgers. According to The New York Times, it is the world’s largest importer of sand. Since 1960, its land area has grown by over a quarter—an entire country’s worth of sea ground, eaten up.

This elegant, tropical coastline has been paid for in millions of tonnes of sand—sourced mostly from Malaysia and Indonesia, and at times from Cambodia, Myanmar, Vietnam. Every granular inch of this beach was once someone else’s shore. And it changed lives. In Indonesia, entire villages have vanished under the tide. Coastal erosion has unbalanced ecosystems, destroyed coral reefs, gutted fisheries. Dredging stirred muddy water that choked the life out of reefs, leaving stagnant seas and empty nets behind.

All to erect a pastel beach for Instagram. Who, after all, reads brochures about eroded villages, displaced communities?

Indonesia banned sand exports in 2003, but lifted the ban in 2023, tempted by profit. Mining corporations, shipping interests, politicians—all saw opportunity. Singapore was quick to return as a principal buyer.

So, shading ourselves from the sun, I know each silent wave lapping Siloso carries a story far beyond these shores. But you’ll not find it printed on a tourist map.

Standing there, on that fine, warm, borrowed sand, a sharp thought cuts through me: in Gaza, there’s barely any land left. Only rubble and silence. Here we pose on sculpted beaches, while there, the soil is torn away by airstrikes and barbed wire.

I remember that monstrous idea Donald Trump once floated — to turn Gaza into a glossy beach resort, as if a few deck chairs and infinity pools could whitewash a genocide. It felt obscene.

And yet now, from the comfort of this artificial coastline, my guilt surges like the tide. I think: what if, one day, there were a real act of restitution — of justice? If someone were to say, “Let’s bring back land to Gaza, give space to breathe, to live, to rebuild” — then yes, maybe, I could accept bringing sand. Not to build a resort. But to extend Gaza. To let it grow, not disappear.

It’s not the beach club I could live with. It’s the idea of giving something back — of bringing in sand to build space, not to sell silence.

Nor does the paradox end here. For yes—while Singapore imports land, it also sends its waste away. Or at least, it burns it—and buries what’s left. My thoughts shift to Semakau—when a child edges towards me, clutching an empty carton. “Where do I throw this?”

I look—and see no recycling bins. No labelled paper or plastic receptacles. Only generic grey bins. A neighbour’s recent complaint echoes in my mind: “You never know where to throw anything—and, in any case, they burn it all.” True.

Differentiation is token. The system claims efficiency—everything is incinerated.

Which leads us to Semakau Landfill.

At first glance, Semakau is like any island—lush vegetation, blue bays, nesting birds. In truth, it’s Singapore’s sole landfill, built from 1999 onwards on reclaimed land. Encircled by a seven–kilometre seawall, it receives over 2,000 tonnes of ash daily, the residue of burning domestic and industrial waste in four massive incinerators that serve the city.

Singapore incinerates 80% of its waste: a centralized, spotless, highly efficient system — at least on the surface. And Semakau is its final stop. The last breath. The blind spot of the perfect city.

Every day, barges depart from the belly of the metropolis, heavy with ash. They call it bottom ash — a sanitized, technical term for what’s left of our habits. It is the pulverized remains of all that passed through the city’s incinerators — plastic, food scraps, textiles, electronics — all burned in massive furnaces that turn waste into electricity and smoke.

The island has often been praised as a model of sustainability: mangrove rehabilitation, coral transplants, even guided tours for the public. And yet, it remains what it is — a landfill. One that is running out of space. According to current projections, Semakau will be full by 2035. Then what?

Every perfect day, every picnic at Siloso, every kaya toast at the kopitiam, every toy bought in a rush from a supermarket — it all ends the same way. In smoke. Then ash. Then dust.

A dust that doesn’t vanish. A dust that settles. A toxic dust.

I notice René still staring at me, clutching the small wrapper he meant to throw away. He hasn’t moved. He holds it like something precious. I walk him to the grey bin — reluctantly. It’s not for paper, not for organics. Just a generic hole. I watch him drop it in, with a gesture so small it seems to encapsulate the paradox of this city: polished, brilliant, built upon an ash no one dares to name.

Singapore is a master of concealment.

Its urban perfection is built on what is not seen.

Beneath the sand: eroded coastlines.
Beneath the vertical gardens: toxic residue.
Beneath the sustainability slogans: data too inconvenient to digest.

Siloso Beach is beautiful, yes. But it is not hers.
Semakau is efficient, yes. But it is not eternal.

After all, who really wants to look at their waste — material, moral, environmental?
We cover it with order.
We ship it elsewhere.
We make it disappear.

But sooner or later, the sand runs out.
And the ash rises to the surface.


Commenti