Al confine con il Tibet-La valle di Nar Phu (PARTE 1)_ At the border with Tibet-The Nar Phu Valley (PART 1)

                                   

Introduzione al trekking nella valle di Nar Phu

All’inizio pensavo al Manaslu. Era il cammino che avevo in mente, tracciato sulle mappe, già in parte immaginato. Poi lui lasciò cadere il nome Nar Phu. Una proposta quasi distratta, eppure definitiva. Non ci fu una vera decisione condivisa, né una richiesta esplicita di farlo insieme. È successo così: come se fosse sottinteso. Senza pensarci troppo, ci siamo trovati a camminare fianco a fianco, anche se non lo conoscevo.

I monsoni, però, avevano rallentato il desiderio. La paura di dover camminare sotto scrosci interminabili, il timore di non vedere mai una vetta — di non avere nemmeno un varco di cielo. È stata una remora iniziale. Eppure, così si è fatto: siamo partiti comunque.

Io mi aspettavo terre aride, desertiche. Immaginavo paesaggi lunari, simili alle pagine del Deserto dei Tartari di Buzzati: fortezze vuote, sentinelle immobili, l’attesa sospesa del nulla. Oppure trincee scolpite nella roccia come quelle delle Dolomiti, memoria di un’Europa in guerra.
Invece, mi sono ritrovata immersa in un verde lussureggiante, che quasi non sembra Nepal. Foreste fitte, felci, muschi che colano dai tronchi. Una natura rigogliosa, esuberante, che contrasta con l’immaginario austero che avevo. Ed è proprio in questo contrasto che la valle si rivela: un equilibrio inatteso tra rigore e abbondanza, tra l’asprezza delle pietraie e la generosità dell’acqua che ovunque scorre.

La valle di Nar Phu è un luogo remoto, incastonato nel massiccio dell’Annapurna. È stata chiusa agli stranieri fino al 2003: canyon stretti, villaggi tibetani arroccati, torri di pietra medievali, campi di orzo e patate coltivati su terrazze verticali. Entrare qui richiede permessi speciali, e la sensazione è quella di attraversare un corridoio del tempo, un mondo sospeso che resiste ai secoli.

Ho voluto che ci fosse una guida donna. Non era una scelta banale. In Nepal, le guide sono quasi sempre uomini: scalatori temprati dalla fatica, custodi dei sentieri e delle regole non scritte della montagna. Per una donna, diventarlo significa portare sulle spalle molto più di uno zaino: significa attraversare ruoli sociali rigidi, sguardi diffidenti, un mestiere che non concede tregua.
Così è arrivata Manisha. Ventiquattro anni, etnia Magar. Più di una guida. Mira ai settemila, sogna le grandi vette. Arrampica su roccia, si allena in palestra con determinazione, a volte indossando ancora il suo vestito tradizionale: un corpo sospeso tra passato e futuro. Nei suoi occhi c’è la pazienza della montagna, nei suoi passi la leggerezza di chi sa già dove andare.

E allora, questo trekking non sarà soltanto un percorso tra valli e ghiacciai. Sarà anche un incontro tra destini diversi: la mia ricerca, i silenzi di Harun, l’ambizione giovane di Manisha. Tutti intrecciati nelle pieghe segrete dell’Himalaya.

Non è solo una marcia tra montagne, ma un viaggio in cui ognuno porta con sé chi è e chi sarà.

Eppure il suo nome non è davvero Harun. L’ho scelto io, più tardi, in un pomeriggio di sosta a Pokhara, quando le gambe si riposavano e le parole scorrevano leggere. Gli avevo chiesto se preferiva restare anonimo o se avesse un nome che gli stava a cuore. Mi aveva spiazzata, dicendo che avrei potuto perfino trasformarlo in una lei. Alla fine aveva sorriso: «Il mio nome va bene, basta che non scrivi vita, morte e miracoli». Poi, scherzando, aveva aggiunto che “Paolo” suonava come un vecchio montanaro, chiuso.

Così ho deciso io: Harun. Montagna e luce, in arabo. Un nome che restituisce qualcosa della sua presenza e del suo silenzio.

Una scelta fatta per lui, come per Livio, per Gabriel, Juan e tutti i miei parenti, ma anche per me. Perché in questo blog tutti i nomi hanno una cura particolare: non maschere, ma attenzioni. È così che restano vivi e vicini, senza mai essere esposti del tutto. Fa eccezione Manisha, che si merita di essere riconosciuta in tutto il suo cammino, e la sua voglia di cambiare le cose.

E adesso comincia il cammino.

«Non puoi vedere la cima finché non lasci la valle.»

 

Giorno 0
Dodici ore di spostamento, stipati come sardine. Il minivan parte all’alba da Kathmandu, carico di undici passeggeri, e io ho il privilegio — se così si può chiamare — di sedere in seconda fila, davanti, accanto ad Harun. È un vantaggio: meno possibilità di nausea, meno probabilità di vomito. Eppure, la vicinanza resta eccessiva, il caldo insopportabile.

Harun ha lo sguardo rivolto al finestrino chiuso, che non lascia entrare aria. Io respiro piano, come per non occupare troppo spazio, la bocca coperta da un panno. Manisha, la guida, se la dorme beata tra i sedili posteriori, con felpa e mascherina tirata sul volto. L’aria è immobile, calda, e il silenzio, interrotto soltanto dai ritmi ripetuti della musica tradizionale nepalese, sembra un velo che copre tutti.

Dopo cinque ore, cambio di veicolo e di clima. Un acquazzone ci sorprende, e con lui la corsa verso una piccola jeep. Gli zaini vengono passati in fretta all’autista, gettati sotto un telo cerato insieme ad altro carico. L’acqua batte sul plastico, impregnandolo, e in un attimo siamo bagnati. L’odore di umido ci accompagnerà per ore. Ci stringiamo dentro: io al centro, compressa tra Harun, Manisha e un uomo con il topi — il copricapo tradizionale nepalese — che mi osserva con curiosità, si fa più stretto, poi rivolge lo sguardo alle gocce che scivolano sul vetro.

Davanti a noi, una madre e una figlia, di ritorno al loro villaggio dopo anni. Anche per loro il viaggio sarà lungo.

L’autista è spericolato — o semplicemente agile. Guida con il telefono in mano, si ferma a ogni curva per ritirare pacchi, commissioni da consegnare lungo il percorso. Dopo mezz’ora di soste sotto la pioggia battente, finalmente imbocchiamo la strada vera: ma “strada” è parola generosa. Tratti di asfalto si alternano a sterrati fangosi, gole scavate da cascate improvvise, torrenti che attraversano la carreggiata. A lato, il fiume gonfio di monsoni corre in piena; sopra, l’acqua che scroscia incessante.

Camion enormi ci incrociano in senso opposto: barcollanti eppure precisi, si destreggiano su quella lingua di terra sottile. Ogni volta sembra un duello con la morte, come le strade del Pakistan o i valichi del Ladakh.

Io trattengo il fiato. Harun, imperturbabile — almeno in apparenza — a un certo punto scatta un selfie che congela la mia espressione, tesa e incredula. «Stiamo calmi», dice con voce ferma. Solo più tardi confesserà di aver temuto che il maltempo ci avrebbe impedito di cominciare il trekking.

A sera, col buio che avvolge ogni cosa, arriviamo finalmente a Koto. Qui ci accoglie la prima delle tante hydropower station cinesi che incontreremo lungo il cammino. Sono impianti costruiti negli ultimi anni come parte degli accordi tra Cina e Nepal: energia pulita, sì, ma anche nuove dipendenze economiche, strade che aprono varchi a traffici meno dichiarati.

Koto è abitata da operai cinesi e da locali. Harun solleva una domanda che avevo in testa anch’io, anche se non l’avevo pronunciata: come fanno tanti uomini soli, qui, per mesi, tra le montagne? La risposta resta sospesa, ma intanto si mormora di traffici silenziosi: ragazze sottratte alle valli remote, convinte o costrette a spostarsi verso le città, o oltre confine. Una tratta sommersa, che scorre accanto a quella dell’acqua e del cemento.

Ci portano in una stanza di legno, come quelle che ci accoglieranno per i giorni successivi: due letti, coperte, un comodino in mezzo. Spazi di condivisione obbligata, tra uno sconosciuto e un’altra, uomo e donna, dove occorre coltivare un distacco fatto di rispetto, come se il contatto fisico imposto non dovesse mai trasformarsi in contatto umano. Silenzi e nudità verranno gestiti con la disciplina che la montagna impone.

È lì, davanti a quella centrale illuminata, e in quella prima piccola teahouse che ci offre un tè caldo e il primo di una lunga serie di dal bhat attorno a una cucina di ferro, che comprendo: il nostro cammino tra valli e ascese non sarà soltanto una marcia tra montagne. Sarà anche un attraversamento dentro le pieghe geopolitiche dell’Himalaya contemporaneo. E, inevitabilmente, dentro le pieghe del mio stesso cervello.

 

Giorno 1
Lo zaino pesa come una colpa antica. Le spalle tirano, i muscoli si tendono come corde. La mente, più del corpo, allena la tentazione di non farcela, e già un mal di testa si insinua a quota 2600 metri — ed è solo la partenza.

Manisha, la guida, cammina accanto a me. Ricorderò due sue frasi: «In montagna conta la testa, prima di ogni cosa. È lei che decide molte cose»; e ancora: «Non si può tornare indietro, si può solo salire e finire». Le sue parole mi restano impresse come piccoli mantra, mentre lei continua ad avanzare con passo regolare e sorridente.

Prima di cominciare bisogna passare dal primo check-point. Le autorità registrano i documenti, e un poliziotto — più per mostrare autorità che per necessità — scruta i passaporti e insiste sulle domande. «Judi?», mi chiama, inciampando nel mio nome. «How are old are you?»
È scritto lì, penso, perché non riesci semplicemente a fare due conti? Perché non converti il tuo calendario nepalese in quello occidentale? Perché, ancora una volta, cadi negli stessi cliché: «Sei sposata? Hai figli? Quanti anni hai?».

Mormoro «quarantacinque». Manisha e Harun non fanno una piega: è il primo giorno, nessuno commenta. Ma noto lo sguardo di Harun, sorpreso: credeva fossi molto più giovane- anche se poi smentirà dicendo che aveva intuito. Da quel momento, la differenza d’età si insinua nei miei pensieri,solo nei miei, come un filtro silenzioso che colora emozioni e giudizi.

Le autorità ci chiedono persino di posare per una foto, con in mano un volantino che promuove il turismo di Bhaktapur, vicino a Kathmandu. Nemmeno la valle che stiamo attraversando, nemmeno i villaggi attorno. Mi ribolle dentro un pensiero: io quel volantino lo brucerei.

Il sentiero risale lungo la gola scavata dal fiume: l’acqua corre piena, torbida di detriti, inarrestabile. Siamo fortunati: c’è sole, cosa rara nel tempo dei monsoni. All’improvviso, il versante sud-est dell’Annapurna si lascia vedere. La cresta bianca emerge dal buio come una linea a carboncino, sottile, precisa. È un’apparizione effimera, quasi un dono. Eppure ne godo poco, concentrata come sono sul fiato e sui passi. I soliti pensieri severi riaffiorano, pronti a giudicare la mia incapacità.

Da 2600 metri saliamo fino a 3560, con dodici, forse quindici chili sulle spalle, per circa diciotto chilometri. Come in tutti i trekking, il primo giorno è un’ascesa. Il paesaggio cambia, e insieme cambiano i pensieri. Mi assale la tentazione — più certezza che tentazione — di alleggerire lo zaino. Fantastico improbabili scommesse nei villaggi futuri per liberarmi di oggetti che già mi sembrano inutili. Finalmente, arriviamo a Meta.

Ci sistemiamo in un alberghetto fatto di stanze semplici, tutte affacciate su un cortile aperto. I bagni sono alla turca, fuori dalle stanze, e l’acqua è sempre gelida. Harun, montanaro, sembra a suo agio. Si lava alla fontana, un minuto appena, ma abbastanza da attirare lo sguardo curioso degli abitanti del villaggio. Alto, biondo, di una bellezza che spicca tra le pietre e i legni di qui. Sulla scapola destra, un tatuaggio che scorgo dal balcone mentre stendo le maglie ad asciugare. Mi chiedo se anche lui, a sua volta, mi studi.

I panni, ancora umidi a sera, li mettiamo vicino alla stufa. Ci scaldiamo anche noi, intrattenuti dai primi racconti di Manisha. Ha ventiquattro anni, appartiene all’etnia Magar. Frequenta un corso di alpinismo, molto diverso dai nostri in Italia. Porta delle Salomon logore, con un buco che lascia entrare polvere e fatica. Ha lo zaino leggerissimo, e per giorni sarà motivo di ironia e curiosità capire come faccia, così minuta, a salire senza sudare, con il passo leggero. Lei ha davvero solo l’essenziale: niente medicine, niente secondo paio di scarpe, niente sacco a pelo.

Racconta che non trova mai abiti o scarpe della sua misura, che l’attrezzatura tecnica costa troppo. Eppure sorride, scherza, ci intrattiene come una guida sa fare. Alla sera, tra storie e barzellette, ci spiega il sistema delle caste e le antiche usanze delle comunità montane: i “rapimenti” delle ragazze, i canti d’amore ripetuti fino a convincerle a sposare. Proprio come accadde ai suoi genitori, un matrimonio adolescenziale.

Gli elicotteri, qui, non arrivano per salvare o portare medicine. Sono per i turisti che pagano per vedere l’Everest dall’alto. Intanto, le donne continuano a partorire in casa, con l’aiuto delle altre del villaggio.

La notte non porta riposo. Alterno sudori e brividi, caldo e gelo. Nel sonno, Harun farfuglia un «mamma mia». Mi domando perché sogni in italiano, lui che è di madrelingua tedesca.

Giorno 2
Al mattino la colazione delude: pane tibetano che somiglia più a un pane fritto, croccante, sottile, senza mollica.
Provo la mia borraccia nuova, costosissima, con filtro incorporato. Ho sempre paura delle malattie, non mi fido mai del tutto. Ma alla fine, filtro e bevo.

Il secondo giorno ci porta fino a Kyang, 3840 metri. Solo 250 metri di ascesa, pochi chilometri, eppure i passi sono lenti. Il pomeriggio è dedicato all’acclimatazione: significa gironzolare per il villaggio, salire piano verso i punti panoramici, toccare i 4000 metri. Bere tanto, ascoltare il proprio corpo, imparare a rispettare il respiro dell’altura.

Eppure il mal di testa non mi abbandona. Lo zaino resta un macigno. Le gambe non fanno male, ma non avanzano. La connessione si interrompe: da oggi fino all’ottavo giorno, nessun telefono, nessun wifi. Un sollievo e insieme un’ansia. Cosa accade a casa, nel mondo? E se ci fosse bisogno di me? La mente scivola sempre verso vecchie memorie, tragedie che non mollano la presa.

Il sole, di nuovo, ci accompagna. Il paesaggio è sorprendentemente alpino: alpeggi, conifere, fiori che potrei immaginare nelle Dolomiti. Eppure siamo qui, tra Himalaya e monsoni. Camminando raccolgo rametti di ginepro e piccoli fiori da seccare. Li annuso: un’abitudine che amo. Qui il ginepro ha un potere sacro. In Tibet viene bruciato come incenso, il suo fumo sale come un ponte tra terra e divino, purificando l’aria e accompagnando le preghiere al cielo. Ma non è solo rito: da secoli le bacche si usano come rimedio digestivo, antisettico, e perfino contro i dolori articolari e respiratori. Pianta dura, che resiste al vento e all’aridità, il ginepro diventa simbolo di forza e protezione

La tappa si ferma in una teahouse. Le chiamano così, non rifugi come sulle nostre Alpi: case del tè. Luoghi semplici, dove ci si siede, si beve e si condivide un po’ di calore. Subito noto l’orto accanto, con una piccola serra: qui ognuno coltiva le proprie verdure, una continuità di mani e stagioni.

Alle spalle si apre la valle, immensa; davanti, la parete glaciale e, accanto, torri di roccia che mi ricordano il Civetta.

Il Civetta, nelle Dolomiti, ha una parete nord che gli alpinisti chiamano “la parete delle pareti”: più di mille metri di muraglia scura. Fu Emilio Comici, nel 1931, a compierne la prima salita, inaugurando una nuova epoca di audacia verticale. Guardare qui queste torri dell’Himalaya, e ritrovare l’eco di quella montagna lontana, è come sentire un filo invisibile che lega mondi diversi.Il sole, alto e limpido, trasforma il paesaggio in un affresco. I cavalli camminano carichi di pietre. Si costruiscono altre case nel villaggio.



Appendo i vestiti bagnati di sudore ai pali di legno che delimitano l’orto, e mi siedo su un muretto accanto a Manisha. Le racconto di un piatto che in Italia, quando ci sono i primi soli, si mangia: fave e pecorino. Noi non abbiamo né l’una né l’altro. Così improvvisiamo: raccogliamo qualche pisello dall’orto, un po’ di sale, e lo abbiniamo al formaggio di yak. È un piccolo gioco di sostituzioni, un modo di intrecciare luoghi lontani in un piatto provvisorio.

Dopo pranzo risaliamo fino ai 4000 metri, fa parte del processo di acclimatazione. Ci avviciniamo sempre più al ghiacciaio. Camminiamo, camminiamo, finché il fiato si fa corto.

Harun è davanti. A un certo punto si ferma, mi guarda le scarpe e dice con tono pratico, asciutto:
— «Posso dirti una cosa? Fatti il doppio nodo. Se ti sloghi una caviglia, sono guai per tutti.»

Annuisco, colta di sorpresa da una comunicazione inaspettata, rifaccio i lacci, ma non stringo abbastanza. Lui scuote la testa, leggermente infastidito:
— «Così non serve. Devono essere più stretti.»

Esito un istante, poi lo interrompo: «Me lo faresti tu il nodo?»

Per un attimo il suo sguardo mi attraversa: verde, fermo, sorpreso. C’è un’ombra di irritazione, ma anche qualcosa che somiglia a una confidenza improvvisa, non cercata. Poi, con un filo di ironia dura, dice:
— «È la prima e l’ultima volta…»

E si china a stringere i lacci con mani sicure, quasi brusche. In quel momento sento chiaramente che il suo gesto non è solo pratico: è un modo di porsi, di mantenere il confine. Harun è con me in montagna, sì, ma senza permettere che io dimentichi di essere io, e lui un altro. Un uomo che tiene la distanza, anche quando si china per stringere i miei lacci.

Dopo un pò ridiscendiamo, fermandoci presso una statua di Buddha. È lungo la discesa che, senza un motivo preciso, mi scende una lacrima.

Durante le discese, mi hanno sempre insegnato a tenere il bacino basso. Un’immagine riaffiora: quando eravamo in due, davanti alla neve o su un ghiaione, la sua voce mi diceva “guardami”. E con le braccia aperte mi mostrava come lasciarmi andare: bacino indietro, un passo alla volta, senza opporre resistenza. È un ricordo che torna come un colpo improvviso — la crema solare, intanto, si scioglie col sudore e mi brucia negli occhi. È acida, sgradevole. Forse, penso, non dovrebbe neppure essere buona.

Mi giro, ed Harun è dietro in lontananza, scende piano, Manisha ed io facciamo i nostri inchini di rito davanti al Buddha e lo aspettiamo.

Giorno 3

Riesco finalmente ad alleggerirmi: lascio qualche chilo indietro, insieme ai panni superflui. Si comincia davvero a camminare. Il sentiero costeggia un canyon, sotto la pioggia che viene e va. Ho il poncho addosso, l’aria è umida ma non fa freddo. Il terreno è roccioso, le pareti argillose, si cammina su larghe cenge che si sbriciolano sotto i passi.

Ognuno ha il suo passo: io sono l’ultima, in mezzo c’è Manisha, e Harun è sempre il primo. Piano piano lei si abituerà al fatto che non potrà mai tenerci uniti, capirà che i nostri silenzi hanno tempi diversi: i miei fatti di affanno, ma anche di sorrisi improvvisi, i suoi rapidi e leggeri, i silenzi di Harun più lunghi e determinati. Si abituerà a camminare con lui, guardando indietro ogni tanto per controllare se arrivo, urlandomi da lontano un “Tikcha?” (tutto ok?), oppure rallenterà per farsi qualche tratto con me, buttando sempre un occhio a quei tornanti che rivelano la piccola sagoma di Harun, già avanti.

Sono l’ultima, e questo mi pesa. La mente salta, si distrae. Intanto mi tornano in mente i paesaggi della Cappadocia: camini fatati scavati dal vento e dal tempo. Qui, invece, il passo si stringe, diventa misura. Un passo alla volta.

Finalmente arriviamo a Phu: il villaggio più antico della valle, a 4.100 metri. Le case sono di pietra, aggrappate alla montagna, e il silenzio è totale. È vuoto, perché tutti sono al Tashi Lhakhang Gompa, il monastero che domina la valle. Si dice sia stato fondato più di mille anni fa.



La tea house dove ci aspettavamo accoglienza è deserta, finché non chiamiamo la padrona. Arriva anche lei dal monastero, con la sua lunga treccia, e ci prepara il solito dal bhat. Mangiamo in silenzio, come se stessimo masticando l’attesa di qualcosa che deve ancora arrivare.

Poi decidiamo di andare a vedere dov’è finita la vita del villaggio. Camminiamo per tornanti che si avvitano nella roccia. All’ingresso del monastero ci accoglie una porta dipinta, con due cervi scolpiti ai lati e al centro un occhio che sembra fissarci. Le porte dei monasteri tibetani sono sempre così: i due cervi rappresentano la mente che vaga inquieta, mentre l’occhio centrale è il Dharma, il centro, la via che conduce alla pace.



Avanziamo e una vecchia ci sussurra che possiamo entrare. Il monastero è minuscolo, di legno annerito dal tempo, vecchio più di un millennio. Dentro è buio, interrotto solo da fessure di luce che scendono come lame. Le statue dei Buddha e delle divinità tibetane sorridono immobili, circondate da drappi colorati, tankha dipinti che narrano storie di rinascite e liberazioni. I monaci sono disposti in due file, uno di fronte all’altro, avvolti nelle loro tuniche rosso scuro.

Il suono delle preghiere ci avvolge. È gutturale, profondo, interrotto dal battere dei tamburi e dal soffio lungo di una conchiglia, che sembra richiamare Dio.Il ginepro brucia e il fumo sale denso, avvolgendo corpi e statue. Ogni tanto un monaco passa con l’incensiere, benedice le persone e gli oggetti che i fedeli gli porgono.

Io e Harun ci scambiamo uno sguardo breve, come per dirci: “che fortuna incredibile, essere qui”. All’inizio lo vedo trattenuto, quasi a disagio. Poi si lascia andare: chiude gli occhi, entra nel ritmo dei canti. Anch’io. Mi abbandono, e quei suoni mi risuonano dentro come se li avessi già conosciuti in un’altra vita, o forse nell’infanzia, quando certi rumori o immagini restano sotto pelle senza spiegazione. È una familiarità che non so tradurre: i tamburi, le voci gutturali, l’incenso che brucia lento — tutto mi riporta a un posto che non ho mai avuto, eppure mi appartiene. Mi sento a casa, lontana da tutto: dalle guerre e dalle battaglie, dai dolori risolti e irrisolti, dai sacrifici e dalle rinunce. In quel momento, nel cuore di quel monastero di legno, io sto. Io ci sono.

Fuori, attraverso le grate, il vento si alza. Ombre e luci si rincorrono sul pavimento: è il sole che filtra tra le nuvole, come in un quadro di Caravaggio, in un film sospeso tra luce e buio, epoche lontane che si sovrappongono.

La donna accanto a me sembra dormire, o forse pregare in trance. Ci offrono tè tibetano, salato e grasso di burro di yak. Io ne bevo solo due sorsi, Manisha svuota la tazza senza esitare, Harun a metà. Nel frattempo le ragazze fanno selfie di nascosto, i giovani monaci tirano fuori i telefoni per riprendere la scena. È il mondo che si mescola: i tamburi e TikTok, le ruote di preghiera e le stories.

Lo spazio è stretto, le gambe si intorpidiscono. Quando provo ad alzarmi, barcollo goffamente. Tutti ridono: un po’ della mia goffaggine, un po’ perché qui la vita resta sempre sospesa tra il serio e il lieve.

Fu, fuori dal monastero, è pietra e fango. Sul cammino fin qui abbiamo visto uomini spaccare rocce a mani nude, con corde legate ai fianchi e ciabatte ai piedi. Le caricano sulle spalle come formiche.

Più tardi saliamo a una statua di Tara, la divinità della compassione che i tibetani venerano come madre di tutti i Buddha. Da lì si guarda Phu dall’alto: il villaggio sembra una macchia di pietra incollata alla montagna. Scattiamo foto: il paesaggio si presta, e Manisha si diverte. Ama TikTok, ama giocare con le immagini, posa naturale. È il Nepal che sogna il futuro e resta ancorato a mille anni fa.

La sera si accende la stufa, e attorno ci si siede a giocare a carte: un gioco nepalese che Harun vince sempre. Ride, dice che io perderò finché non troverò l’amore a Nar. Una profezia che, per fortuna o destino, non si avvererà mai. Rubiamo acqua calda dalla stufa per rabboccare i tè, ridendo del nostro essere un po’ pezzentoni, ma complici, inclusa Manisha che versa l’intero bollitore nelle tazze. È in quella povertà finta, per alcuni vera, che si costruisce una piccola complicità.

Il tè è sempre lo stesso: mint tea, oppure ginger lemon honey. Facciamo finta che sia una scelta decisiva. Harun ed io laviamo i panni a mano nell’acqua gelida, e mentre li strofino riaffiorano ricordi: E., il mio primo Nepal, la nostra vita fatte di quotidianità sui tetti di Kathmandu.

Intanto Manisha si racconta. Con me parla di relazioni, di balli e ornamenti, della sua voglia di emancipazione. Con Harun discute di arrampicata, di vette e allenamenti. Piano piano,  cade qualche barriera. Ci sono piccoli spiragli di condivisione, come finestre che si aprono. Non è e non sapremo mai se fra di noi sarà amicizia,  ma è qualcosa che inizia a somigliare a un trio tutto nostro.

(ENG)

Introduction to the Trek in the Valley of Nar Phu

At first, I had thought of Manaslu. That was the path I had in mind, traced on the maps, already half–imagined. Then he let slip the name Nar Phu. A suggestion almost distracted, and yet definitive. There was no shared decision, no explicit request to do it together. It simply happened: as if implied. Without thinking too much, we found ourselves walking side by side, even though I didn’t know him.

The monsoon, however, had slowed desire. The fear of marching beneath endless downpours, the dread of never seeing a single peak — not even a slit of sky. That was my first hesitation. And yet, so it went: we left anyway.

I had expected arid, desert lands. I imagined lunar landscapes, like the pages of Buzzati’s Desert of the Tartars: empty fortresses, immobile sentinels, the suspended wait for nothing. Or trenches carved in rock like those of the Dolomites, memory of a Europe at war.
Instead, I found myself immersed in a lush green that scarcely seemed Nepal. Dense forests, ferns, moss dripping from trunks. A nature exuberant, overflowing, that jarred with the austere image I had carried. And it was precisely in this contrast that the valley revealed itself: an unexpected balance between severity and abundance, between the harshness of scree and the generosity of water running everywhere.

The Nar Phu valley is remote, wedged into the Annapurna massif. It was closed to foreigners until 2003: narrow canyons, Tibetan villages clinging to rock, medieval stone towers, fields of barley and potatoes on vertical terraces. To enter requires special permits, and the feeling is that of walking through a corridor of time, a suspended world resisting the centuries.

I wanted a woman guide. Not a trivial choice. In Nepal, guides are almost always men: mountaineers hardened by toil, custodians of paths and of the unwritten laws of the mountains. For a woman, to become one means carrying much more than a pack: it means crossing rigid social roles, enduring suspicious eyes, embracing a profession that grants no respite.
And so came Manisha. Twenty–four years old, Magar ethnicity. More than a guide. She aims for the seven–thousanders, dreams of the great peaks. She climbs rock, trains in gyms with determination, sometimes still wearing her traditional dress: a body suspended between past and future. In her eyes lives the patience of mountains, in her step the lightness of one who already knows where to go.

And so this trek would not be merely a route among valleys and glaciers. It would be an encounter of different destinies: my search, Harun’s silences, Manisha’s young ambition. All woven into the secret folds of the Himalaya.
It is not only a march across mountains, but a journey in which each of us carries who we are, and who we might become.

And yet his name is not really Harun. I chose it later, on a quiet afternoon in Pokhara, when our legs rested and words flowed more easily. I had asked him if he preferred to remain anonymous, or if there was a name he cared for. He had startled me by saying I could even make him a “she.” In the end he had smiled: “My name is fine, as long as you don’t write life, death and miracles.” Then, joking, he added that “Paolo” sounded like an old, closed–in mountain man.
So I decided: Harun. Mountain and light, in Arabic. A name that restores something of his presence and his silence.

A choice made for him, as for Livio, Gabriel, Juan and all my relatives, but also for myself. Because in this blog every name is chosen with care: not masks, but attentions. In this way they remain alive and near, without ever being fully exposed. But Manisha, is an exception, she deserves to be fully acknowledge in her light and path.

And now the path begins.

“You cannot see the summit until you leave the valley.”

Day 0
Twelve hours of travel, packed like sardines. The minivan leaves Kathmandu at dawn, carrying eleven passengers, and I have the dubious privilege of sitting in the second row, up front, next to Harun. An advantage, they say: less chance of nausea, less likelihood of vomiting. Still, the closeness is excessive, the heat unbearable.

Harun gazes out through the closed window, no air entering. I breathe shallowly, as if to occupy less space, my mouth covered by a cloth. Manisha, our guide, sleeps peacefully in the back, hood pulled over her head, a mask across her face. The air is heavy, immobile, and the silence, broken only by the monotonous beat of Nepali folk songs from the radio, seems to cover us like a film.

After five hours, a change of vehicle, a change of air. A sudden downpour catches us, pushing us into a small jeep. The backpacks are passed quickly to the driver, thrown under a tarpaulin with the rest of the cargo. Rain drums against the plastic, soaking it through, and in a moment we are wet. The smell of damp will follow us for hours. We squeeze in: me in the middle, pressed between Harun, Manisha, and a man wearing the topi — the traditional Nepali cap — who studies me curiously, then shrinks back and turns his eyes to the water running down the glass.

In front, a mother and daughter on their way back to their village after years away. For them too, the road will be long.

The driver is reckless — or perhaps simply skilled. He drives with his phone in hand, stopping at every bend to pick up parcels, errands to be delivered along the route. After half an hour of halts under the pelting rain, we finally hit the “real” road — though “road” is generous. Bits of asphalt alternate with muddy tracks, gullies gouged by sudden waterfalls, torrents cutting across the way. To the side, the river, swollen with monsoon waters, races in flood; above us, water pours incessantly down.

Enormous trucks sway towards us, yet pass with uncanny precision on that strip of earth. Each time feels like a duel with death, like the mountain passes of Pakistan or Ladakh.

I hold my breath. Harun, impassive — at least on the surface — at one point snaps a selfie that captures my strained, incredulous face. “Keep calm,” he says evenly. Only later will he confess he feared the weather might stop us before we even began.

By nightfall, wrapped in darkness, we reach Koto. Here stands the first of many Chinese hydropower stations we will encounter along the way. Built in recent years as part of agreements between China and Nepal: clean energy, yes, but also new dependencies, new roads opening discreet channels for trade of other kinds.

Koto is inhabited by Chinese workers and locals. Harun voices the question I too had in mind, though I hadn’t asked: how do so many men live here, alone, for months, in the mountains? The answer lingers, but whispers speak of quiet trafficking: girls taken from remote valleys, persuaded or forced to move towards the cities, or across borders. A submerged trade running alongside that of water and cement.

We are shown to a wooden room, like those that will host us for the coming days: two beds, blankets, a small table between. Spaces of forced sharing between strangers, man and woman, where distance must be cultivated through respect, as though physical proximity imposed should never turn into intimacy. Silences and nakedness will be managed with the discipline the mountains demand.

It is there, before the floodlit station, in that first small teahouse offering hot tea and the first of countless dal bhat by an iron stove, that I understand: our path through valleys and ascents will not be only a march among mountains. It will be an entry into the geopolitical folds of the contemporary Himalaya. And, inevitably, into the folds of my own mind.

 

Day 1
The pack weighs like an old guilt. Shoulders ache, muscles stretch like strings. The mind, more than the body, wrestles with temptation — or rather the certainty — of not making it. Already, a headache creeps in at 2,600 meters — and this is only the start.

Manisha, our guide, walks beside me. I will remember two of her phrases: “In the mountains, the head matters most. It decides many things.” And again: “You can’t turn back; you can only climb and finish.” Her words remain with me like mantras, as she keeps her steady, smiling pace.

Before beginning, we pass the first checkpoint. Officials register our documents, and a policeman — more to display authority than for need — scrutinizes passports, repeating questions. “Judi?” he mangles my name. “How are old are you?”
It’s written there, I think, why not just count? Why not convert your Nepali calendar to the Western one? Why the same clichés again: Are you married? Do you have children? How old are you?

I murmur “forty-five.” Manisha and Harun show no reaction: first day, no comments. But I catch Harun’s look, surprised: he had thought me much younger. From that moment, the difference in age coils in my thoughts, a silent filter tinting emotions and judgments.

The authorities even ask us to pose with a leaflet promoting tourism in Bhaktapur — near Kathmandu. Not even this valley, not even the surrounding villages. A thought boils inside me: I would burn that leaflet.

The trail climbs along a gorge cut by the river: water runs full, thick with debris, unstoppable. We are lucky: the sun shines, rare in monsoon time. Suddenly, the south-eastern face of Annapurna emerges. The white crest rises from shadow like a charcoal line, thin, precise. A fleeting apparition, almost a gift. Yet I savor it little, consumed by breath and step. My mind returns to its harsh judgments, ready to brand my inability.

From 2,600 meters we climb to 3,560. Twelve, maybe fifteen kilos on our backs, for about eighteen kilometers. As with all treks, the first day is an ascent. The landscape shifts, and with it my thoughts. I feel the urge — more a certainty — to shed weight. I fantasize about pawning off objects in villages ahead, things already useless. Finally, we reach Meta.

We lodge in a small inn, rooms opening onto a courtyard. Toilets outside, squat style, water always freezing. Harun, mountain–bred, seems at ease. He washes at the fountain, a minute only, enough to draw curious eyes from villagers. Tall, blond, striking against the stones and wood here. On his shoulder blade, a tattoo I glimpse from the balcony as I hang clothes. I wonder if he, too, is studying me.

The clothes, still damp at evening, we place by the stove. We warm ourselves, entertained by Manisha’s first stories. She is twenty–four, Magar. She attends an alpine training course, different from ours in Europe. Worn–out Salomons, a hole letting in dust and strain. Her pack is absurdly light, and for days we will joke about how she manages, so slight, to climb without sweating, step light and quick. She carries only the essential: no medicine, no spare shoes, no sleeping bag.

She tells us she can never find gear in her size, that technical equipment costs too much. Still she smiles, jokes, guides us as only a guide can. That night, between tales and laughter, she explains the caste system, the old customs of mountain communities: the “abductions” of girls, the love songs repeated until they yielded and married. As with her parents: a teenage marriage.

Here helicopters do not bring rescue or medicine. They are for tourists who pay to see Everest from above. Meanwhile, women give birth at home, with only other women to help.

The night brings no rest. I alternate sweat and shivers, heat and cold. In sleep, Harun mutters a “mamma mia.” I wonder why he dreams in Italian, when his native tongue is German.

 

Day 2
Morning disappoints: Tibetan bread, more like fried dough — crisp, thin, without crumb.
I try my new, expensive bottle with its built-in filter. I always fear illness, never fully trust. But in the end, I filter and drink.

Today’s stage brings us to Kyang, 3,840 meters. Only 250 meters ascent, a few kilometers, yet the steps are slow. The afternoon is for acclimatization: wandering the village, climbing slowly to viewpoints, touching 4,000 meters. Drinking water, listening to the body, learning the respect altitude demands.

The headache does not leave me. The pack remains a boulder. Legs don’t hurt, but don’t advance. From today until the eighth, no signal, no wifi. A relief, and an unease. What happens at home, in the world? What if I am needed? My mind drifts to old memories, tragedies that will not let go.

The sun, again, accompanies us. The landscape surprisingly Alpine: pastures, conifers, flowers I might imagine in the Dolomites. Yet we are here, between Himalaya and monsoon. Walking, I gather sprigs of juniper, small flowers to press. I smell them: a habit of mine. Here juniper is sacred. In Tibet it is burned as incense, its smoke rising as a bridge between earth and divine, purifying the air, carrying prayers skyward. But it is also medicine: berries used as digestive, antiseptic, for joint and lung ailments. A hard plant, resistant to wind and drought, juniper becomes a symbol of strength and protection.

We stop at a teahouse. They call them that, not “refuges” as in the Alps: houses of tea. Simple places to sit, to drink, to share warmth. Outside, a garden with a small greenhouse: here everyone grows their vegetables, continuity of hands and seasons.

Behind, the valley opens vast; ahead, a glacial wall, and beside it rock towers that remind me of the Civetta.

The Civetta, in the Dolomites, has a north face climbers call the wall of walls: over a thousand meters of dark cliff. In 1931, Emilio Comici made the first ascent, opening a new era of vertical daring. To see here these Himalayan towers, to feel the echo of that distant mountain, is to sense an invisible thread linking worlds.

The sun high, the scene becomes a fresco. Horses plod under stone loads. Houses rise, new walls stacked from rock.

I hang my sweat–damp clothes on wooden poles that edge the garden, sit on a low wall beside Manisha. I tell her of an Italian dish, eaten in spring sunlight: fresh fava beans with pecorino cheese. We have neither here. So we improvise: peas from the garden, a little salt, paired with yak cheese. A game of substitutions, weaving distant places into a provisional meal.

After lunch we climb to 4,000 meters: part of acclimatization. Always closer to the glacier. We walk and walk until breath shortens.

Harun leads. At one point he stops, looks at my shoes, and says in a dry, practical tone:
“Can I tell you something? Double-knot them. If you twist an ankle, we’re all in trouble.”

I nod, surprised at this sudden communication, retie them, but not tight enough. He shakes his head, faintly irritated:
“That’s useless. They need to be tighter.”

I hesitate, then break: “Would you do it for me?”

For a moment his eyes hold mine: green, steady, surprised. A flicker of annoyance, but also something like unexpected intimacy. Then, with hard irony, he says:
“First and last time…”

And bends to tie them, sure, brusque hands. In that act, I sense it’s not only practical: it’s his way of keeping boundaries. Harun is with me in the mountains, yes — but reminding me I am I, and he another. A man who holds distance, even while stooping to knot my laces.

Later we descend, stopping at a statue of Buddha. It is on the way down, without reason, that a tear slips.

On descents, I was always told to keep my hips low. A memory returns: when we were two, before snowfields or scree, his voice would say “watch me.” Arms open, showing how to let go: hips back, one step at a time, without resistance. The memory strikes sharp. Sunscreen melts with sweat, stings my eyes. Bitter, caustic. Maybe it was never meant to be good.

I turn. Harun is behind, descending slowly. Manisha and I bow ritually before the Buddha and wait.

 

Day 3
At last I shed weight: drop a few kilos, leave behind extra clothes. Now the real walking begins. The trail skirts a canyon, rain coming and going. Poncho over me, the air damp but not cold. The ground rocky, clay walls crumbling into ledges.

Each has their pace: I the last, Manisha between, Harun always first. Slowly she will learn she cannot keep us together. She will see that our silences differ: mine made of breathless effort, yet also sudden smiles; hers quick, light; Harun’s longer, resolute. She will learn to walk with him, glancing back for me, calling “Tikcha?” (all okay?), or slowing to keep me company, one eye on Harun’s figure already a speck ahead.

Being last weighs on me. My mind skips, wanders. I recall Cappadocia’s fairy chimneys, carved by time and wind. Here, instead, the step contracts to measure: one step at a time.

Finally we reach Phu: the oldest village of the valley, at 4,100 meters. Houses clinging to rock, silence total. Empty, because all are at the Tashi Lhakhang Gompa, the monastery above. Said to have been founded more than a thousand years ago.

The teahouse where we had hoped for welcome is deserted, until we call. The hostess arrives from the monastery, long braid down her back, and prepares the usual dal bhat. We eat in silence, as though chewing the expectation of something yet to come.

Then we go to find where the village has gone. We climb switchbacks cut in stone. At the monastery gate, painted doors greet us, two carved deer at the sides, an eye in the center that seems to stare. Tibetan monastery doors are always like this: the deer are the restless mind, the central eye the Dharma, the way that leads to peace.

We move forward. An old woman murmurs that we may enter. The monastery is tiny, wood blackened by centuries, more than a millennium old. Inside, darkness, pierced only by thin shafts of light. Statues of Buddhas and Tibetan deities smile immobile, draped with colored cloths, thangka paintings narrating cycles of rebirth and release. Monks sit in two rows facing, wrapped in deep red robes.

The sound of prayers enfolds us. Guttural, low, broken by the thud of drums and the long call of a conch, as if summoning gods. Juniper burns, smoke rising thick, wrapping bodies and statues. Sometimes a monk passes, swinging incense, blessing people, blessing the objects they extend.

Harun and I exchange a brief look, as if to say: what an incredible fortune to be here. At first I see him held back, uneasy. Then he lets go, closes his eyes, enters the chant. So do I. I surrender, and those sounds strike familiar — as if I had known them in another life, or perhaps in childhood, when noises and images lodge beneath the skin unexplained. A familiarity I cannot name: the drums, the guttural voices, the slow smoke of incense — all bring me to a place I have never had, yet that belongs to me. I feel at home, far from everything: from wars and battles, from wounds resolved and unresolved, from sacrifices and renunciations. In that moment, in the wooden heart of that monastery, I am.

Outside, through the grates, wind rises. Shadows and light chase across the floor: sun piercing clouds, like a Caravaggio painting, a film of other times, light and dark colliding.

The woman beside me seems asleep, or praying in trance. Tibetan tea is offered: salty, heavy with yak butter. I sip twice only. Manisha drains hers obediently, Harun halfway. Around us, girls sneak selfies during puja, young monks slip phones from robes to film others filming. The world intertwines: drums and TikTok, prayer wheels and stories.

The space is tight, legs numb. When I try to stand, I stumble. Laughter rises: at my clumsiness, but also at life here — always poised between gravity and levity.

Outside, Phu is stone and mud. On the way we had seen men splitting rock with bare hands, ropes around their waists, flip-flops on their feet. They hoisted slabs on their backs like ants.

Later we climb to a statue of Tara, goddess of compassion, mother of all Buddhas. From there we see Phu from above: a smear of stone plastered to the mountain. We take photos: the landscape begs for it. Manisha delights, loves TikTok, loves playing with images, posing natural. It is Nepal dreaming the future, yet anchored in a thousand-year past.

That evening, the stove is lit, and we sit around playing cards: a Nepali game Harun always wins. He laughs, says I will keep losing until I find love in Nar. A prophecy — thankfully or fatedly — that never came true. We steal hot water from the stove to refill our tea, laughing at our shameless thrift. Manisha joins in, pouring the whole kettle into cups. In that feigned poverty — for some real — a small complicity is born.

Tea is always the same: mint, or ginger lemon honey. We pretend it matters which. Harun and I wash clothes by hand in icy water. As I scrub, memories resurface: E., my first Nepal, our life strung across Kathmandu rooftops.

Meanwhile Manisha speaks. With me, of relationships, dances, ornaments, her hunger for emancipation. With Harun, of climbing, boulders, peaks, training. Slowly, a few barriers fall. Small openings of sharing, like windows creaking ajar. Whether it will ever be friendship, we will not know. But it begins to resemble something that belongs only to us three.

 

 

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