Al confine con il Tibet-La valle di Nar Phu e Pokhara oggi (ULTIMA PARTE)_ At the border with Tibet-The Nar Phu Valley and Pokhara Today (LAST PART)
Giorno 5 – White Out
La
mattina Manisha dice soltanto due parole: “White Out.”
Vuol dire che non si vede niente: davanti a noi non c’è più il mondo, solo un
muro bianco, un foglio cancellato. Lasciamo il monastero. L’aria è umida, le
goccioline ci si incollano addosso come una pioggia invisibile. Indossiamo i
poncho e ci inoltriamo dentro al bianco.
Camminiamo
tre ore e mezza senza paesaggio, come ciechi guidati dal fiato. Tutto è
inghiottito. Ogni tanto, dall’alto, scorgo appena un fiume che incide la valle
come una linea di inchiostro, e poi di nuovo nulla. Mi fermo, guardo Manisha, e
davanti agli occhi il vuoto si trasforma in un dipinto cinese: pennellate nere
diluite nell’acqua, ombre che emergono e svaniscono. Manisha sorride: “Nice
sketch.”
Al mattino, i bambini avevano
fatto colazione pregando accanto a noi. Le piccole luci colorate che la sera
prima brillavano come un’insegna al neon nel vuoto, erano ora spente e lontane.
Io intanto continuo a ripetermi: sono luce, sono
forza, sono amore. Il mantra si lega al respiro, passo dopo passo. Non l’avevo
mai trovato prima, forse nasce ora, perché la fatica comincia a scavare, e
l’animo cerca un appiglio.
In alto Harun appare e scompare come un’icona lontana. Un attimo è lì, l’attimo dopo sparisce nel bianco, come un miraggio. Lo guardo e non capisco se sia un traguardo o un’illusione. Lo guardo senza pensiero, e decido che è un’illusione e ricomincio a salire piano, ripetendo mantra, parole, fino ad un borbottio sottovoce. Il tempo smette di avere misura.
Arriviamo
a un arco di legno e fango. Manisha, questa volta preoccupata, prende il mio
zaino. Harun ci aspetta in silenzio, il cappuccio calato. Mangio una barretta
insipida, ha un gusto mediocre, niente a che vedere con l’entusiasmo
che avevo quando le ho comprate. “Made in Nepal, Organic” — il pacchetto
brillante, quasi ingannevole. Guardo l’involucro tra le dita, e butto lo sguardo
ad Harun che si punge la pancia con l’ago. È un
gesto che conosco, l’ho visto più volte, eppure non smette di inquietarmi. Il
diabete in alta quota è una sfida silenziosa: il freddo altera la risposta del
corpo, l’altitudine cambia il metabolismo, la fatica brucia zuccheri più in
fretta.
Harun ci ha istruito sin
dall’inizio: “Se mi accade qualcosa, dovete sapere dov’è la dose d’emergenza.
Nella tasca interna dello zaino.” Parole che lasciano addosso un retrogusto
amaro. In Himalaya il tempo del soccorso non è mai immediato. Qui, se il corpo
cede, sei tu, i tuoi compagni, le tue mani e sei fortunato un asino che ti
porta al primo villaggio.
Io mi domando spesso: -ma se Harun mi è quasi sempre a mezz'ora davanti, come faccio?
Ripartiamo.La
mia pancia gorgoglia, l’acqua deve avermi lasciato qualche disturbo. Eppure
andiamo avanti, ed è come camminare dentro una nuvola senza confini. Poi, d’un
tratto, il villaggio.
Un
cancello, dei cavalli che si imbizzarriscono davanti ad Harun. Lui si sposta
con un balzo, io alzo lo sgaurdo, osservo con un tempo di reazione molto lento.
Una vecchia sdentata ci viene incontro, indica la strada. Le mie gambe vanno da
sole, fino a una tea house accanto ad un monastero., che ahimè, questa volta non mi interessa visitare. Sono esausta.
La tea house si chiama Shanti.
I vestiti sono fradici, appesi come corpi stanchi. Fuori piove. La nostra
stanza è al terzo piano, minuscola, di legno, affacciata su una terrazza.
“Namaste”, dicono alcuni giovani monaci dalle stanze vicine.
La
sala da pranzo è ampia e accogliente. Dietro le grate della finestra spio i
gestori: una coppia che mangia insieme sotto la pioggia. Sulle pareti, le foto
di nozze li ritraggono giovani, seri. Hanno passato una vita intera quassù, uno
accanto all’altra.
In Nepal, soprattutto nei
villaggi remoti, i matrimoni combinati sono ancora la norma. Le famiglie si
incontrano, decidono, e spesso gli sposi hanno poca voce in capitolo. “L’amore”
arriva dopo, se arriva.
Molti resistono insieme, come in
una lunga prova di resistenza. Li guardo curiosa chissà come è stare in due
sotto la stessa pioggia, che cade sempre uguale? Lui pulisce funghi in una
bacinella sotto l’acqua, lei si pettina i capelli lunghi, neri, con un
pettinino minuscolo. Gesti quasi inutili, direbbe qualcuno: eppure lì, in
quell’inutilità, si misura la tenerezza di una vita passata insieme.
Non resta che la nebbia, il
sonno, la lettura, lo scrivere. Salgo e mi infilo nel sacco a pelo. Passano le
ore.
Scendiamo
per cena, ma prima ordiniamo come prassi un ginger lemon honey: il rimedio che qui è medicina. Lo
zenzero è considerato purificante, il limone rinfresca lo spirito, il miele
armonizza. Una specie di alchimia da montagna, una di quelle che funzionano,
perché in fondo il corpo ti ringrazia davvero.
Dopo, giochiamo a carte e dopo ad un
gioco sul cellulare di Manisha, tipo Uno : suoni digitali che ci
ipnotizzano, ci rintontiscono, trenta minuti di alienazione che cancellano la
stanchezza.
Decido
che domani non porterò più tutto il peso. Qualcuno del villaggio mi aiuterà, un
asino prenderà parte del mio carico. Per suggellare questa decisione indosso il
mio piumino “prima copia”, giallo canarino sopra il pile rosso vintage. In
Nepal i vestiti tecnici si vendono a copie: la prima copia è quasi identica
all’originale, con piccoli difetti, prodotta in Cina; la seconda è più grezza,
tutta nepalese. Il mio è di prima copia, ed è così vistoso da sembrare una
dichiarazione.
Facciamo
una foto. Accanto a me c’è una vecchia donna di Phu: il volto solcato da rughe
come canyon, zigomi sporgenti, denti mancanti. Sorride. All’inizio penso sia un
gesto di cortesia. Poi mi accorgo che è un sorriso complice, rivolto a me ogni
volta che la nuora la rimprovera. In quella foto lei siede sotto di me, io con
il piumino giallo, la famiglia attorno. Sembriamo un santino, un’icona.
E in quell’icona c’è una promessa: che domani, quando la sveglia suonerà alle tre, saremo pronti. Io, Manisha, e persino Harun, che appare e scompare nel bianco come se fosse lì per caso, anche se in realtà è il mio metronomo.
Giorno 6 – Il Passo
Ci svegliamo alle tre. La stanza è fredda, fuori è ancora
notte. “Non c’è un modo più umano di scalare un passo?” bofonchio, mentre
infilo la frontale. Poi subito dopo sorrido tra me e me. Ricordo le mattine
gelide in cui le frontali mi avevano già accompagnata: la salita al Cevedale,
le Sette Cime, la Capanna Margherita. Allora come adesso, il buio iniziale era
stato un confine che, una volta attraversato, mi aveva fatto svegliare
all’improvviso, nel qui e ora, come un colpo di tamburo.
Manisha mi guarda. È silenziosa, concentrata, con quello
sguardo che non rivela mai a cosa stia pensando. Poi sorride: “Ready?”
Usciamo piano dalla tea house. Lascio lo zaino pesante:
porto solo un carico leggero. È come togliersi un pensiero dalla testa:
improvvisamente mi sento libera, quasi serena. Camminiamo in fila indiana, le
frontali come piccole lucciole che aprono varchi nella pancia oscura della
valle. Io chiudo la fila: dietro di me non resta nulla, solo il buio.
Dopo un po’ sento passi veloci. Un’ombra mi supera senza
dire nulla: un pastore. Passa come se fosse a casa sua, con un’andatura che non
ha bisogno di esitazioni. “E questo dove va a quest’ora?” penso. Nelle valli
del Mustang e del Nar Phu i ritmi sono diversi. La gente si alza spesso prima
dell’alba: i pastori devono spingere i greggi in alto già col fresco,
percorrendo in poche ore distanze che a noi richiedono giornate intere.
La valle si apre come un pianoro. Me l’ero immaginata
lunare, spoglia, come nelle foto tibetane. Invece i monsoni hanno lasciato un
tappeto verde, punteggiato da arbusti bassi. Una contraddizione vivente: sotto
la roccia nuda, sopra un manto fragile di vita. È così il Nepal: contrasti che
si sovrappongono. Le montagne non sono cime aguzze, ma spianate, come se un
gigante avesse passato un rullo di pietra.
Dietro di noi il buio si stempera. Prima blu, poi viola,
poi striature rosa. Le tonalità fredde cedono alle calde. I giganti si
mostrano, e noi diventiamo comparse che avanzano piano, passo dopo passo. Prima
li sentiamo: un campanellio lontano. Poi emergono dalla foschia: yak,
imponenti, indifferenti, statuari. Solo i piccoli corrono, saltano e si
prendono tutto quello spazio con la gioia di chi non ha mai conosciuto il
limite.
Non possiamo fare altro che fermarci e guardare, come
spettatori entrati in punta di piedi in un teatro segreto. I raggi avanzano
lenti, come un sipario che si apre per annunciare lo spettacolo. “Bello, vero?”
dico. Annuiscono tutti. Faccio un respiro profondo, sorrido a Manisha che è
raggiante: cede alla tentazione di farsi riprendere in un video, felice di
aggiungere anche questo tassello al suo curriculum che cresce, giorno dopo
giorno, come giovane guida himalayana.
Una volta, un pilota nepalese del Mustang mi ha chiesto
perché volessi andare a Nar Phu, cosa mi aspettassi dal camminare. “Un
sentimento,” gli ho risposto. Lui ha sorriso, come fanno i nepalesi quando non
servono altre parole. Le montagne non sono solo cime: sono presagi, prove,
stati dell’anima. Io ho cominciato ad amarle proprio da qui, da questo paese.
Più avanti ci fermiamo in una capanna, forse un vecchio
bivacco. Dentro, la cenere del focolare è mischiata a sacchetti e lattine:
plastica bruciata, odore acre. Scuoto la testa. “Ma perché?” dico sottovoce.
Fino a quel momento avevo raccolto cartacce lungo il sentiero, persino una
confezione di succo incastrata negli arbusti.
Harun non dice niente. Di solito prende senza protestare
i rimasugli che gli passo da portare a valle, ma entrambi capiamo che questa
volta non si può fare nulla.
Ripartiamo. Poco dopo Harun indica in alto e chiede a
Manisha: “Il passo è lassù, giusto?”
Alzo lo sguardo… “Quello lì? No…” Manisha sorride e annuisce. Io rimando il
pensiero della salita, come si rimanda un dolore.
Arriviamo a un fiume in piena. Ciascuno prova un
passaggio: c’è chi va avanti e torna indietro, chi tenta la via più semplice e
rinuncia. Poi sono tutti e due di là. Io arrivo con la mia solita scena goffa.
L’acqua corre forte, le pietre scivolose. “Vai, è facile!” mi dicono. Io provo,
inciampo, pianto il bastoncino nel torrente e mi bagno una scarpa. Harun filma,
e in quel momento lo fulmino con il pensiero. Ma sorrido. E lui mi sorride.
Succede spesso: ci sorridiamo. Ma, secondo me, pensando
esattamente l’opposto. È un classico. Mentre cammino mi vengono in mente certe
coppie — amici, colleghi — che per quieto vivere non si dicono mai quello che
pensano davvero. E allora resta tutto lì, sotto la superficie, come la polvere
che non hai voglia di passare con l’aspirapolvere.
Così mi immagino Harun e Manisha: ognuno nel suo film,
con la propria trama e la propria colonna sonora. E io? Io sono l’intervallo.
Quello in cui ti alzi a sgranchirti le gambe, ti compri una Coca-Cola e una
manciata di popcorn molli, e intanto pensi che forse il secondo tempo sarà
meglio del primo.
Poco più avanti arriva il padrone della tea house da cui
siamo partiti, con un cavallo che porta parte del mio bagaglio. Mi sento grata.
Lui si siede e accanto un cavallo bianco che bruca l’erba. “Questo è Alfredo,”
dico ridendo. Dietro, la valle si apre come un teatro: sole alto, prati verdi,
montagne che si piegano una verso l’altra, lingue di nuvole bianche che
scorrono lente. È bellissimo.
Poi la salita si fa seria. Le distanze si allungano, il
respiro si spezza. Il mantra ritorna, ma non funziona. Lo sconforto entra: le
gambe vanno ma sempre più piano, il respiro si restringe. È come nei sogni in
cui corri senza muoverti. Cerco di incoraggiarmi: penso alle persone e alle
donne che in quest’anno mi sono state accanto perché ricominciassi a vivere.
Dedico i passi: uno a mia madre, uno alle donne della mia famiglia, uno alle
guaritrici, uno a Ruba di Gaza. Piango. Non so se perché mi sento vecchia e
fallita o perché ogni passo è un lasciare andare.
Harun è già in alto, forse al passo. Io mi fermo su una
pietra, con un nodo in gola. Manisha mi raggiunge: “Il vento gira, se non ti
muovi arriva il maltempo.” Mi propone il cavallo. “No, ce la faccio,” dico. “Ci
metterò un’ora e mezza in più.” “No, Zeudi, non si può.” Alla fine cedo. Faccio
un altro pezzo, poi monto sopra Alfredo per gli ultimi cento metri. Nessuno
fotografa, neppure io. Mi volto: il ghiacciaio si affaccia, il sole scotta,
sotto il lago turchese, all’orizzonte la valle, il passo che si apre lassù.
Tutto scolpito dentro.
“Almeno fammi arrivare in grande stile,” dico. Mi avvolgo
nella bandiera della Palestina come fosse un mantello. Mi prendo in giro da
sola, ma penso alla pace quassù, e al senso di colpa di stare lontana da chi
questo forse non lo vedrà mai. Mi emoziono.
A pochi metri dal passo il sentiero si stringe. Devo
scendere. Faccio leva sulla gamba sinistra, tolgo la destra, lo scarpone resta
incastrato nella staffa. Il cavallo si agita, il ginocchio sinistro si piega: clack.
Dolore secco. Mi blocco, impaurita. Poi passa, ma resta l’ansia. Al passo trovo
Harun, congelato, che alza mano per darmi un "cinque" e congratularsi - ce l'hai fatta dai! Grande!- e ha un sorriso a tutti denti. Io penso solo al ginocchio. Lui intuisce il mio nervosismo e
appende la bandiera al mio posto. Provo solo ansia, e il senso di colpa per non
riuscire a condividere quella felicità.
Facciamo la foto di rito. Io non ci sono con la testa,
non mangio. Siamo dentro una nuvola, non si vede nulla. In Himalaya il primo
soccorso è crudele e semplice: se ti fai male, scendi. A piedi, o a cavallo, se
sei fortunato. Non c’è altro.
La discesa è un ghiaione immenso. Mille metri di sassi
che rotolano e cedono. Ginocchia piegate, passi corti, talloni che affondano.
Il rumore è un fruscio costante, come grano che scivola. Il ginocchio brucia.
Rallento, riprendo, non vedo l’ora di arrivare.
Poi, all’improvviso, il cielo si apre. Il ghiaione sembra
non finire mai, ma dopo un po’ appare un prato verde, una baita, fiori ovunque.
Ci lasciamo cadere nell’erba. Io alzo lo sguardo e l’orizzonte si spalanca:
Annapurna II. La mia preferita.
Vorrei rimanere lì a riposare il corpo, e la vista. Guardo e contemplo. Seduti accanto a me, Manisha e Harun che parlano fitto, come due bambini che fantasticano sul futuro: picchi, vette,
preparazioni per i seimila e i settemila. Lui è già proiettato lassù, a
domandarsi se ci sarà occasione per tentarla. Lei lo ascolta, condivide,
illuminata dai racconti.
Si riparte ma io resto qualche passo indietro, per non forzare il ginocchio. Li osservo. C’è una
tenerezza in quell’immagine che non so spiegare.
Arriviamo alla tea house. Io zoppico, il ginocchio è un
pallone. La prima cosa che faccio è controllarlo: gonfio, caldo. Faccio una
doccia gelida, mentre Manisha si lava i capelli con calma. Non capisco come
faccia, con tutta quell’umidità. Alla tea house già sanno del mio ginocchio:
c’è chi lo guarda, lo tocca. Io mi rifugio vicino alla stufa con una tazza in
mano.
La tea house sembra una baita alpina: legno chiaro,
balconate ornate di gerani, proprio come in Italia. I gestori sono una coppia
gentile. Lei ci mostra una busta piena di funghi. Ci rendiamo conto subito che
non sono funghi normali: sono i famosi caterpillar fungus.
In principio avevamo timore che il trekking non si potesse
fare perché molte persone erano ancora fuori dai villaggi per la raccolta del
fungo, che in realtà è un parassita unico dell’Himalaya, un fungo che cresce
sul corpo delle larve di falena e che viene raccolto a mano in tarda primavera e inizio estate. In
Nepal lo chiamano “yarsagumba”. Da secoli è considerato un rimedio miracoloso:
afrodisiaco, rinvigorente, medicina per mille mali. I primi clienti sono i
cinesi, disposti a pagare cifre altissime: in certi casi più dell’oro a peso.
La sera assaggiamo il rakshi — festeggiamo- liquore aspro
e ruvido, fatto in casa, che scalda lo stomaco e graffia la gola. Harun beve,
ed è divertente , seppur evento raro, vederlo
meno composto, sorridere.
Alto, biondo, con occhi verdi che non rivelano mai cosa
pensi davvero, parla poco, sempre a modo, con frasi brevi e precise.
Manisha, accanto, lo prende in giro quando la penna
dell’insulina, usata come freccia, decide chi deve bere. Manisha è riservata,
timida, ma con un sorriso che a volte si apre come una porta segreta: se vuoi
entrare, ti mostra tutto, con naturalezza e calore. Poi, quasi senza rumore, si
richiude a riccio, come se avesse paura di essersi concessa troppo.
E così, tra il dolore del ginocchio, l’alcol che scalda, chiudiamo
la giornata.
Giorno 7 – Catch
“Catch!” urla un uomo su una moto
scassata, fermandosi davanti a me con un sorriso che sembra uscito da una
vecchia réclame scolorita. È deciso: oggi non cammino. La strada è sterrata, e
poi asfalto, fino a Manang, l’ultima cittadina. Annuisco. Salgo.
Il viaggio dura tre quarti d’ora.
Io con lo zaino pieno sulle spalle che scivola sempre in avanti,
sbilanciandomi. Ogni volta che la moto sobbalza, il conducente grida: “Catch!
Tieniti stretta, stretta!” Io lo stringo, rido tra me e me, e penso che in fondo
non mi sto perdendo niente: non c’è poesia nello sterrato, né rivelazioni
nell’asfalto. Solo polvere e curve. Ma anche in questo, forse, un pezzo di
viaggio trova il suo senso: arrivare più velocemente dove la strada finisce,
senza sudore, senza battaglia.
Arrivo in una guesthouse immensa,
tutta in legno. Una corte centrale raccoglie i balconi come rami che si
riversano verso il cuore dell’albero. Il proprietario è seduto a un tavolo:
somiglia a un monaco tibetano. Ha il volto scavato, lo sguardo immobile, la
voce roca che sussurra soltanto: “Buongiorno”. Accanto a lui, una vecchietta
minuscola, piegata dal tempo, vestita con l’abito tibetano: sembra avere cento
anni davanti al suo tè.
Alle pareti, fotografie di
leopardo delle nevi. Non sono immagini qualsiasi: le ha scattate lui.
Il leopardo delle nevi — Panthera uncia — è il fantasma delle montagne.
Vive sopra i tremila metri, appare e scompare come un’ombra. Per gli abitanti
dell’Himalaya è insieme leggenda e presagio: vederlo significa essere scelti,
non semplicemente fortunati. Fotografarlo è quasi impossibile, eppure eccolo,
stampato sulla parete, come prova di un incontro che somiglia a un miracolo.
Io mi butto in camera. Mi sdraio.
Dormo. Quando riapro gli occhi, c’è di nuovo il segnale sul telefono: WhatsApp
vibra, il mondo ci ritrova. È il segno che la fine si avvicina.
Dopo tre ore arrivano anche loro.
Manisha mi corre incontro, mi sorprende mentre bevo un caffè troppo amaro.
“Zeudi!! Eccoci! Come sta il ginocchio?”
Li accompagno a vedere la stanza, cedo ad Harun il lettone. Lui mi porge un
dono: foglie di marijuana raccolte lungo il cammino. “Ho pensato potessero
aiutarti… contro il dolore"e forse anche contro il malumore, penso io. Lo dice con un
mezzo sorriso, e in quel sorriso trovo conforto e sollievo.
Verso sera usciamo per un giro.
Manang si apre come un crocevia. Non è più il silenzio di Phu, qui si avverte
il respiro del turismo: i menu offrono spaghetti e cappuccini, le tea house
hanno Wi-Fi, i cartelli parlano in inglese. È un nodo dell’Annapurna Circuit,
il punto dove le carovane si incontrano, dove il vecchio mondo delle valli
incontra il nuovo, fatto di caffè espresso e di mappe scaricate online.
Vorremmo bere ancora del rakshi,improvvisiamo
un aperitivo. Manisha, testarda, chiede in ogni bettola, a sottovoce. In un bar
buio, che in stagione offre anche narghilè, due ragazzi guardano un talk show
indiano su un televisore gracchiante. Ci offrono chang, anziché rakshi.
Il chang è la birra tradizionale delle valli: cereali fermentati — miglio,
orzo, riso — che diventano bevanda acidula, leggera. È la bevanda dei
contadini, il contrario del rakshi: quotidiana, non cerimoniale. Assaggiamo,
ringraziamo, rifiutiamo.
Finisce che ci sediamo in uno
snodo che è piazza e incrocio insieme. Davanti a noi un piccolo stupa bianco,
le ruote di preghiera che girano senza sosta. Attorno, la vita scorre. Asini
carichi passano dondolando, donne curve sotto il peso delle pietre, bambini che
si rincorrono gridando. Le vecchie, con le mani callose, sfiorano le ruote che
continuano a girare, girare, come il tempo che non conosce soste.
Noi tre, come comari, ci sediamo
su una panchina, a guardare. “Non credo al caso,” dico. “Non può essere una
coincidenza che in tutto il mondo ci siamo trovati qui, insieme. Io e Harun non
ci conoscevamo. Manisha è arrivata solo perché la sua capa aveva partorito e
non poteva venire con noi.”
Penso alla mia metà cinese: la cultura
confuciana e taoista parla di yuánfèn, destino condiviso. È il filo
invisibile che lega due o più persone, un legame karmico che spiega perché ci
si incontra, ci si riconosce, o si cammina insieme anche solo per un tratto.
Nel buddhismo tibetano c’è tendrel,
che significa “interdipendenza significativa”. Nulla esiste da solo: ogni
evento è collegato a un altro, ogni incontro è la fioritura di un seme piantato
molto prima. Quello che chiamiamo coincidenza è in realtà il momento in cui più
fili si intrecciano nello stesso punto.
Anche in Occidente Jung l’avrebbe
chiamato sincronicità: fili sottili che si intrecciano, dando senso
all’improbabile.
Manisha scuote la testa: “È
casuale. Niente di più.”
Harun resta in silenzio. Non
capisco se stia cercando di capire, o se già sappia.
Io insisto, convinta. Però non
rivelo i tendrel che mi sento tirare. Uno non consola: scuote. È come camminare
accanto a una montagna che non si lascia mai scalare del tutto, che ti obbliga
a misurarti con i tuoi limiti, con il desiderio di capire chi hai davanti e con
la certezza che non lo leggerai mai fino in fondo. Forse il messaggio è proprio
questo: non tutto si conquista con la vicinanza, e ci sono legami che hanno
senso solo perché restano incompiuti. Ti insegnano a sopportare il vuoto, a
guardare l’altro come mistero, ad accettare che non sempre arriverà una risposta.
E insegna al tempo stesso che talvolta dobbiamo misurarsi con la vulnerabilità, e scoprire che non sempre si può controllare l’immagine che si offre al mondo e
che ci sono parti di sé che emergono lo stesso, anche se non sappiamo dar loro
un nome.
L’altro tendrel che mi
tiene è nella sorellanza, che sorride,
si apre, poi si richiude, come un fiore che non vuole svelare troppo. Ma in
quel poco che offre c’è un sostegno silenzioso, la prova che anche quando credi
di essere sola, accanto a te c’è sempre una presenza che ti accompagna.
Forse eravamo solo tre ombre
chiamate a incrociarsi sullo stesso sentiero. La montagna ci ha uniti come si
intrecciano i fili di una preghiera tibetana: per un poco hanno vibrato insieme
al vento, poi si scioglieranno. Ma in quell’attimo di colore nell’aria c’era
già tutto: il conforto, lo scuotimento, la prova che nessuno cammina mai
davvero solo.
Ultimo giorno – Il ritorno
Di nuovo in jeep, di nuovo balzi ad
ogni metro, così percorriamo la stessa via dell’andata, anche se sembra un film sbiadito: niente
pioggia, niente furia. Solo la polvere, i tornanti, e noi raggomitolati dentro
un guscio di ferro troppo stretto.
Manisha è davanti, riesce a
dormire. La sua testa si appoggia leggera alle trecce, come se anche in sogno
sapesse tenere il ritmo del cammino. Io guardo fuori mentre la musica esce
gracchiante dall’autoradio suonando un rap nepalese, poi un rock incerto, che
ci accompagna come un sottofondo che nessuno osa spegnere.
Poi arriva lei, la vera
protagonista delle strade himalayane: la frana. Sassi, fango, alberi crollati,
rocce divoranti: le piogge monsoniche le chiamano “season of landslides” qui—e
non è solo frase. In Nepal ogni anno le frane causano vittime, interi villaggi
isolati, strade distrutte, ponti spazzati via. Le altre jeep che ci precedono,
spengono i motori. Tutti scendono, si
accucciano, fanno capannello. Un caterpillar appare come un dio d’acciaio,
comincia a spostare sassi, a graffiare la montagna. Qualcuno dorme accasciato,
altri controllano lo schermo del telefonino: serie, video, notifiche. Qualcuno
parla, farnetica su come rimuovere la frana .Noi restiamo lì, in attesa,
parcheggiati sotto un’altra parete che minaccia di cedere da un momento
all’altro. Penso a quante volte in Nepal il destino si gioca in una curva, in
un sasso che rotola, e a come per la gente qui sia normale come il pane.
Dopo qualche ora, ripartiamo, e una moto davanti a noi slitta continuamente nel fango: le ruote girano nell’acqua marrone, la sospensione geme, il pilota tira il manubrio, tenta, retrocede, riprova. Fango ovunque, e avanziamo con velocità ma non troppa.
Perdiamo la coincidenza
dell’autobus, e così affittiamo un taxi per Pokhara. Ci salutiamo con Manisha
lungo la strada: abbracci veloci, promesse di rivederci a Kathmandu. Lei
sorride e sparisce tra le jeep, e resta un vuoto discreto, come quando si chiude
una porta senza sbatterla.
Il paesaggio intanto cambia
pelle. Le montagne si addolciscono, si fanno colline, terrazze di risaie che
scintillano d’acqua. L’aria è più calda, i colori più accesi, e la fatica del
passo sembra lontanissima, già trasformata in racconto. Dopo dieci ore complessive
arriviamo a Pokhara. Io non me la ricordavo così. Anzi, non me la ricordavo
affatto.
L’hotel è uno di quei posti che
sanno di confine: moquette macchiata, aria condizionata con una colata marrone
sotto lo sfiato, grate alle finestre, una porta che non chiude bene. Ma per il
prezzo, va bene così. Anzi, riesco persino a farmela mia quella stanza stanca,
come se fosse un rifugio in cui finalmente sciogliere i pensieri.
I tre giorni a Pokhara scorrono
lenti. Ci concediamo un’altra camminata, ultimo tentativo per vedere la
balconata himalayana, ultimo sforzo per il mio ginocchio sinistro, che sotto antinfiammatori non sente alcuna tensione: prezzo che pagherà il menisco con una lieve lesione. Ci incamminiamo la mattina presto, lasciando l’hotel a
piedi, e dopo mezz’ora circa arriviamo ai piedi di una collina, dove la strada
comincia a salire. Anche noi saliamo, e dopo asfalto arriva un sentiero e la
giungla. L’umidità è una guaina che ti avvolge: gocce che scivolano sul collo,
sudore che cola tra le scapole e sul petto. Latifoglie, felci che pendono come
tende verde scuro, radici che sporgono sul sentiero, riccioli di legno umido,
tronchi sbrecciati dal muschio. Uccelli strani che gracchiano, un rumore
continuo di insetti, sanguesughe che tentano di insediarsi. La vegetazione è ricca, opprimente. Man mano che saliamo,
la giungla si fa meno fitta, il sole più alto, e l’aria più calda.
Sorge d’un tratto un pianoro con
al centro un enorme pipal, “sacro fig tree”, con il tronco largo, foglie a
forma di cuore. C’è tantissima ombra, e attorno al suo fusto ci sono fili
colorati, nastri, piccoli pezzi di stoffa appesi: devoti li hanno legati per
chiedere benedizioni, protezione, o per compiere voti familiari. Il pipal è
simbolo della vita eterna, della saggezza: si crede che sotto quelle foglie si
realizzi una comunione tra il visibile e l’invisibile.Io mi ci siedo sotto.
Harun, che sulle montagne sembra
sempre implacabile, qui soffre. Non sopporta l’umidità e, sebbene continui a
camminare più rapido di me, la giungla lo piega. Tant’è che, appena vede una
polla d’acqua derivante dalle risaie, si spoglia e si tuffa senza esitazione
nell’acqua limpida e fresca. Io lo guardo, mi affaccio al bordo, le gambe mi
bruciano dal calore, ma non mi butto. Non so perché. Avrei dovuto.
Camminiamo ancora, finché la
statua enorme di Ganesh appare davanti a noi. Il sentiero gira, e la vista è
nebulosa: le montagne non si vedono, celate da una bruma lattiginosa. Eppure
Ganesh si staglia netto contro il cielo azzurro, con la testa da pachiderma e
il ventre pieno, simbolo di protezione e della rimozione degli ostacoli.
Ci sediamo stanchi su una
panchina, all’ombra della statua, davanti a un piccolo tempio di Shiva. Al
centro del tempio, un linga: un cilindro di pietra levigata, eretto su una base
circolare. È la forma più antica con cui si rappresenta Shiva: non un idolo
figurativo, ma un simbolo dell’energia cosmica, l’unione del principio maschile
(il linga verticale) con quello femminile (la base). Guardandolo, penso a
quanto sia potente la semplicità di un simbolo che non mostra nulla e dice
tutto.
Sudati, zuppi, restiamo lì,
immobili. Io comincio a raccontare la leggenda di Ganesh: come nasce dalla
polvere del corpo di sua madre Parvati, e come fu proprio suo padre, Shiva, a
decapitarlo per errore, non riconoscendolo. Solo dopo, pentito, gli restituisce
la vita ponendogli la testa di un elefante, trasformando la disgrazia in
sapienza. Una storia crudele e tenera insieme, che spiega perché ancora oggi
Ganesh è venerato come colui che apre i cammini.
La volta successiva che siamo nuovamente seduti assieme è a cena, io con addosso una maglia con il cerchio psichedelico, colori che girano come un mantra rotto, e Harun con una t-shirt con la scritta di un referendum per la cittadinanza in Italia dell’8-9 giugno: parole lontane, estranee a quel contesto, ma che su di lui sembrano parte di un’altra vita.
Il ristorante è semplice, ha un
cortile interno con un pergolato e montagne pitturate sul muro, luci calde, e in men che si dica una Gorkha Strong,
sul tavolo, la birra chiara e fresca che porta il nome e l’etichetta con su
disegnato il guerriero Gurkha, simbolo di coraggio e resistenza. Harun la prende con cura, inclina la bottiglia
e versa lentamente. La schiuma sale come un respiro trattenuto, scivola lungo
il vetro, si ferma a un passo dal bordo: la precisione con cui trattiene, la
grazia involontaria con cui lascia andare. Come il parlare di quella sera.
Le parole cadono rotonde, come
pietre che finalmente rotolano a valle. Harun, racconta del viaggio attraverso
l’Europa e l’Iran, del suo grande
compagno di avventure con cui ha pedalato per mesi, parla del lavoro,
dell’irrequietezza, del suo amore per le montagne.
Non ricordo cosa dissi quella
sera — forse nulla di memorabile. Ma la sensazione, quella sì, rimane: come se,
tra curry e naan, ci fossimo conosciuti un po’ di più, al di là dei silenzi
accumulati sui sentieri.
E mi viene da pensare a Pokhara
negli anni ’70, quando qui arrivavano i viaggiatori del “fun”, quelli che
accendevano una canna guardando il lago e parlavano di rivoluzione tra un sitar
e un tamburo. La marijuana cresceva libera, come oggi, i cieli sembravano più
larghi, e l’unica ricchezza era il tempo da perdere. In quelle stanze piene di
fumo e di sogni si intrecciavano lingue diverse, amori improvvisati,
l’illusione che un’altra vita fosse possibile.
Non so se siamo tanto diversi,
noi- io almeno- seduta ad un tavolo a bere Gorkha, non per quello che si dice,
ma per ciò che rimane nell’aria, sospeso, dopo che il bicchiere si è svuotato e
il silenzio non pesa più.
ENG
Day 5 – White Out
In the morning Manisha says only two words:
“White out.”
It means there is nothing to see: the world is
gone, replaced by a white wall, a wiped page. We leave the monastery. The air
is damp; droplets cling to us like an invisible rain. We pull on our ponchos
and walk into the blank.
For three and a half hours we move without
landscape, like the blind led by breath. Everything is swallowed. Now and then,
from above, I glimpse a river scoring the valley like a line of ink, and
then—again—nothing. I stop, look at Manisha; in my mind the void becomes a
Chinese painting: black wash thinned with water, edges appearing and
dissolving. Manisha smiles. “Nice sketch.”
At breakfast the children prayed beside us. The
colored lights that the night before glowed in the emptiness like a neon sign
are now dark and far. I keep repeating to myself: I am light, I am strength, I
am love. The mantra knits itself to the breath, step after step. I have never
found it before; perhaps it is born now, as fatigue begins to burrow and the
spirit looks for a hold.
High ahead, Harun appears and disappears like a
distant icon. One moment he’s there, the next he vanishes into the white, a
mirage. I watch him, unsure if he’s a goal or a trick of the eye. I decide he’s
an illusion and start climbing again, slowly, words thinning into an
under-the-breath mutter. Time loses measure.
We reach an arch of wood and mud. Manisha,
worried this time, takes my pack. Harun waits under his hood, silent. I chew a
tasteless bar—nothing like the enthusiasm I felt when I bought them. Made in
Nepal, Organic—bright packaging, almost a tease. Between my fingers the
wrapper crinkles; beyond it I catch Harun sliding a needle into his belly. I
know the gesture, I’ve seen it often, and still it unsettles me. Diabetes at
altitude is a quiet contest: cold alters the body’s answers, height shifts the
metabolism, effort burns sugar faster.
From the start Harun briefed us: “If anything
happens to me, you need to know where the rescue dose is. Inside pocket of the
pack.” A sentence that leaves a bitter aftertaste. In the Himalaya, help is
never immediate. Here, if the body fails, it is you, your companions, your
hands—and if you’re lucky, an ass to carry you down to the first village.
I often wonder: if Harun is almost always
half an hour ahead, how would I reach him?
We move on. My gut gurgles; the water has left
its mark. Still, we walk—through a borderless cloud. Then, all at once, the
village.
A gate. Horses skittish at Harun; he sidesteps
lightly. I lift my eyes, slow to react. A toothless old woman comes toward us,
points the way. My legs go on their own until a tea house beside yet another
monastery. Today, I have no wish to visit it. I’m wrung out.
The tea house is called Shanti. Our
clothes hang drenched, like tired bodies. It rains. Our room is on the third
floor, tiny, wooden, with a terrace. “Namaste,” call young monks from the rooms
next door.
The dining room is wide and kind. Through the
window grating I spy the couple who run the place, eating side by side under
the drizzle. Wedding photos on the wall: young, solemn faces. They have spent a
lifetime up here, one beside the other.
In Nepal, especially in remote valleys,
arranged marriages are still common. Families meet, decide; the bride and groom
often have little say. “Love” arrives later, if it arrives at all.
Many simply endure together, as if in a
long-distance trial. I watch them and wonder what it is to stand in the same
rain, day after day. He cleans mushrooms in a tub outside. She draws a small
comb through thick black hair. Useless gestures, someone would say. Here,
tenderness is measured in the luxury of the useless.
All that remains is fog, sleep, reading, a few
lines. I crawl into the sleeping bag. The hours slide.
For dinner: ginger–lemon–honey, the mountain
remedy that here is a medicine. Ginger to warm and scour, lemon to clear, honey
to harmonize. A small alchemy that truly works, because the body, in the end,
says thank you.
Afterward we play cards and some silly game on
Manisha’s phone—Uno-like, with sounds that hypnotize and sand down the day for
thirty blessed minutes.
I decide that tomorrow I won’t carry
everything. Someone from the village will help; an ass will take part of my
load. To seal the decision I put on my “first copy” down jacket—canary yellow
over a red vintage fleece. Here technical gear is sold in “copies”: the first
copy almost identical to the original, tiny flaws, factory far away; the second
rougher, made in Nepal. Mine is first copy, and bright enough to be a
statement.
We take a photo. Next to me sits an old woman
from Phu: face cut by canyons of wrinkles, high cheekbones, missing teeth. She
smiles. At first I take it for courtesy; then I see it is a conspirator’s
smile, aimed at me whenever her daughter-in-law scolds her. In the picture she
is seated below, I am the splash of yellow, the family frames us. We look like
a little holy card.
Inside that icon is a promise: that tomorrow,
when the alarm rings at three, we will be ready. Me, Manisha, and even
Harun—who fades in and out of the white as if by chance and is, instead, my
greatest unrest.
Day 6 – The Pass
We wake at three. The room is cold; night still
holds. “Isn’t there a more humane way to climb a pass?” I grumble, fitting the
headlamp. Then I smile to myself. I remember other dark starts: Cevedale, the
Seven Summits ridge, Capanna Margherita. Then as now, the first black is a
gate—cross it and you wake hard into the present, like a drumbeat.
Manisha looks at me—quiet, intent, that gaze
that never tells what it’s weighing—then smiles. “Ready?”
We step out of the tea house. I leave the heavy
pack. On my shoulders, barely anything. The lightness lifts my mind as well. We
file out, headlamps like small fireflies cutting a tunnel in the valley’s dark
belly. I bring up the rear; behind me, nothing.
Footfalls gain from behind. A shadow passes
without a word: a shepherd. He moves as if at home—no hesitation. In Mustang
and Nar Phu, the day starts before the sun; flocks must be driven high while
the air is still cold. Distances that take us a day they close in hours.
The valley opens into a plateau. I had imagined
lunar barrens; the monsoon has laid a green mat over naked stone. Nepal is
often this: bone beneath, life above. The mountains are not spearpoints but
pressed tables, as if some giant roller had smoothed the range.
Behind us, darkness thins: blue, then violet,
then strokes of pink. The cold tones yield to warm. The giants show themselves,
and we become extras moving forward, step by step. First we hear them: bells
far off. Then they come out of the haze: yaks, massive, indifferent,
statuesque. Only the calves run, claiming the empty with a joy that has never
met a fence.
We can do nothing but stop and watch, as if we
had slipped on stage in a private theater. Light advances like a curtain
lifting. “Beautiful, isn’t it?” I say. Heads nod. I breathe deep; Manisha is
radiant and lets herself be filmed, glad to add this shard to a guide’s small,
growing curriculum.
Once, a Mustang pilot asked me why I wanted Nar
Phu—what I expected from walking. “A feeling,” I said. He smiled the way
Nepalis do when more words would be waste. Mountains are not only summits; they
are trials, omens, states of the soul. I learned to love them from this side of
the world.
Farther on a hut stands empty. Inside, ash is
caked with plastic and tins. The stink is sour. “Why?” I hear myself whisper.
Up to here I’ve been picking wrappers from the trail, even a juice box snagged
in brush. Now there is nothing to save.
Harun says nothing. Usually he takes the scraps
I hand him, to carry down. We both know: this one we leave.
We start again. “The pass is up there, right?”
Harun points. I lift my eyes. “That one?” Manisha smiles and nods. I defer the
thought the way you defer a toothache.
A river in spate. Each of us tries a line, then
gives it up; someone else chooses an easy-looking route, retreats. In the end
the others are across. I arrive with my trademark awkwardness: hard water,
slick stones. “Go on, it’s easy!” They say it. I trip, plant my pole in the
torrent, soak one boot. Harun films. I skewer him with a look—then smile. He
smiles back.
It happens often: we smile, tucking the
opposite in our pockets. I think of pairs I’ve known—friends, colleagues—who
keep the peace by not saying what they mean. The rest lies under the rug like
dust you cannot be bothered to sweep. I picture Harun and Manisha in their own
films, each with a different soundtrack. And me? I’m the interval: you stand,
stretch, buy a flat soda and damp popcorn, and hope the second act will be
better.
A little higher the tea-house owner from this
morning appears with a horse carrying part of my pack. Gratitude is simple. He
sits; the white horse grazes. “This one’s Alfredo,” I laugh. Behind him the
valley is a set: sun high, green meadows, ridges bending toward one another,
white tongues of cloud. It is, simply, beautiful.
Then the slope takes its true grade. Distances
lengthen, breath shortens. The mantra returns and fails. Discouragement enters
quietly. The legs still go, but slower; the breath narrows. It is like those
dreams where you run in place. I try to steady myself; I think of the
people—especially the women—who, this past year, helped me begin again. I
dedicate steps like notes passed under a door: to my mother; to the women of my
family; to the healers; to Ruba of Gaza. Tears come, without a single reason.
Harun is high already, perhaps at the pass. I
sit on a rock with a knot in my throat. Manisha reaches me. “The wind’s
turning. If you don’t move, weather will catch us.” She offers the horse. “No.
I can do it,” I say. “I’ll just take ninety minutes more.” “We can’t, Zeudi.” I
yield. I walk one more stretch; then I mount Alfredo for the last hundred
meters. No one takes a picture. Not even me.
I turn: a glacier peers over the lip, the sun
bites, turquoise lake below, the saddle opening above. “Let me at least arrive
in style,” I say, and drape the Palestinian flag like a cape. I tease myself,
and still I think of peace up here—and of the guilt of being far from those who
may never see this blue.
A few meters from the crest the path pinches. I
have to dismount. I load my weight on the left leg, free the right; the boot
catches in the stirrup. The horse shies; the left knee folds. Clack. A
clean pain. I freeze, afraid. It ebbs—but the anxiety stays. On top, Harun
holds up a palm for a high-five—“You did it! Bravo!”—a broad grin. I see only
the knee. He senses my worry and ties the flag in my place. I feel only
dread—and a thin shame for not being able to share his joy.
We take the ritual photo. My head is elsewhere;
I don’t eat. We are inside a cloud. In the Himalaya first aid has a single law:
if you’re hurt, you go down. On foot—or on a horse if luck holds. There is
nothing else.
The descent is a great scree. A thousand meters
of stone that slides. Knees bent, short steps, heels plowing. A constant hush
like grain pouring. The knee burns, then eases, then burns again. I slow,
resume. I wait for the land to level.
Then the sky opens, sudden. A green field, a
wooden hut, flowers. We drop into the grass. I lift my eyes; the balcony of
peaks swings wide. Annapurna II—the one I love most.
We move again. Ahead of me Manisha and Harun
talk fast, like children plotting the future: peaks, routes, training for six
and seven thousand. He is already up there, asking whether a chance might come.
She listens, she glows. I stay a few steps back. There is a tenderness in that
picture I cannot explain.
Back at the tea house I limp; the knee is a
balloon—hot, swollen. I ice it. A cold shower. Manisha washes her hair with
maddening calm; I don’t know how she does it in this damp and chill. Word of my
knee has run ahead; hands prod, eyes assess. I retreat to the stove with a cup.
The house could be Alpine: pale wood, balconies
with geraniums. The owners are gentle. She shows us a bulging bag. Not ordinary
mushrooms: yarsagumba, the caterpillar fungus. A parasite that colonizes
a moth larva, mummifies it, sprouts in spring, harvested by hand. For
centuries—tonic, aphrodisiac, cure-all. Buyers from the east pay high,
sometimes more than gold by weight.
That night we try rakshi—our small feast—home
brew, raw and honest, that warms the stomach and scuffs the throat. Harun
drinks; rare to see him loosen, smile.
Tall, fair, green eyes that never quite give
themselves away—he speaks little, and exactly. Beside him Manisha teases, using
his insulin pen as an arrow to decide who drinks. She is reserved, shy; her
smile opens like a secret door—if you wish to enter she shows you everything,
then—almost noiselessly—closes again, afraid perhaps of having offered too
much.
And so, between the ache in the knee and the
liquor’s heat, we end the day.
Day 7 – Catch
“Catch!” shouts a man on a battered motorbike,
stopping in front of me with a smile faded like an old advertisement. It’s
settled: today I won’t walk. The road is dirt, then asphalt, to Manang, the
last town. I nod. Climb on.
Forty-five minutes of jolts. My pack keeps
sliding forward, tipping me. Each bump the driver repeats: “Catch! Hold tight!”
I hold on and think I’m not missing much. There is no poetry in gravel; asphalt
has no revelation. Only dust and curves. And yet, even this has its meaning:
reaching the end of the road without sweat, without battle.
I reach a vast wooden guesthouse. A central
courtyard gathers the balconies like branches leaning toward a heart. The owner
sits at a table—he could be a Tibetan monk: carved face, still eyes, a hoarse
“Good morning.” Beside him a tiny old woman in Tibetan dress, bent with years,
as if she kept the rock’s secret.
On the walls, snow leopards—his photographs,
not posters. Panthera uncia, mountain ghost, living above ten thousand
feet, appearing and vanishing like an afterthought. Here it is both legend and
omen: to see one is to be chosen, not merely lucky. To photograph one, nearly
impossible—and yet there it hangs, proof of a near-miracle.
I fall into bed. Sleep. When I open my eyes the
phone hums again: WhatsApp, the world finding us. The end draws near.
Three hours later they arrive. Manisha runs to
me while I am botching a bitter coffee. “Zeudi! We made it! How’s the knee?” I
show them the room and grant Harun the big bed. He offers a gift: marijuana
leaves he picked along the trail. “Thought they might help… with the pain.
Maybe the mood too.” The half-smile makes him, for a second, less enigma and
more boy.
Toward evening we wander out. Manang opens like
a crossroads. This is not Phu’s silence. Tourism breathes here: menus with
spaghetti and cappuccino, tea houses with Wi-Fi, signs in English. A knot on
the Annapurna Circuit—caravans of old and the new map-downloaders meeting on
the same corner.
We hunt rakshi for an improvised aperitif.
Manisha, stubborn, asks in each dive. In a dark bar, narghile in season, two
boys stare at a loud Indian talk show. They offer us chang instead.
Chang is the valley beer: fermented grains—millet, barley, rice—turned into a
light, sour drink. A farmer’s brew, the opposite of rakshi: everyday, not
ceremonial. We taste, thank, decline.
We end up at a junction that is both square and
street. A small white stupa; prayer wheels turning without rest. Life flows
around it. Donkeys pass, swaying under loads; women stoop under stones;
children chase and shriek; old hands brush the wheels, keep them
turning—turning—like time that refuses to stop.
The three of us, like gossiping aunties, plant
ourselves on a bench and watch. “I don’t believe in chance,” I say. “It can’t
be coincidence that, out of the whole world, we ended up here—together. Harun
and I didn’t even know each other. Manisha joined because her boss had just
given birth and couldn’t come.”
I think of my Chinese half: Confucian and
Taoist thought speaks of yuánfèn, shared destiny—the invisible thread
binding two or more people, a karmic link that explains why we meet, recognize,
or walk together for a stretch. In Tibetan Buddhism there is tendrel—“meaningful
interdependence.” Nothing exists alone; each event is tied to another; every
encounter is the flowering of a seed planted long before. What we call
coincidence is the point where many threads knot at once. In the West Jung
would have called it synchronicity: thin cords crossing to give sense to the
unlikely.
Manisha shakes her head. “Random. Nothing
more.”
Harun is quiet. I can’t tell if he’s weighing
the thought or already knows.
I insist, but keep the rest to myself. One tendrel
does not comfort; it shakes. It sets you beside a mountain that won’t ever be
wholly yours, forces you to live with your limits, the desire to read the
other, and the certainty you’ll never read to the end. Perhaps the message is
this: not everything yields to closeness; some bonds make sense precisely
because they remain unfinished. They teach you to endure the void, to see the
other as mystery, to accept that answers do not always come—and, in the same
breath, to face your own tenderness, to learn that you cannot always control
the image you hand the world; parts of you will surface anyway, even nameless.
The other tendrel that holds me is
sisterhood—the smile that opens, then closes again, like a flower wary of
giving too much. In the little it offers there is a steadying presence, proof
that even when you believe yourself alone, someone is pacing the path at your
side.
Perhaps we were only three shadows asked to
cross at the same bend. The mountain braided us like prayer flags: for a while
they flutter together; then the wind does what wind does. In that brief color
in the air there was enough—comfort, jolt, and the old truth that no one walks
alone.
Last Day – The Return
Back in the jeep, the old road again: another
film now, faded—no hard rain, no fury. Dust, hairpins, and the three of us
curled in a tin shell too small.
Manisha rides in front and sleeps, her head
resting on her braids as if even in dreams she could keep the march. From the
radio a Nepali rap, then a hesitant rock, background no one bothers to cut.
Then she arrives—the real protagonist of
Himalayan roads: the landslide. Stones, mud, fallen trees, the mountain eating
its own road. Monsoon season is also landslide season here; each year there are
dead, villages cut off, roads torn, bridges gone. The jeeps ahead cut their
engines. People climb down, squat, form tight little circles. A yellow
caterpillar rolls in like a steel god and begins to claw the slope. Someone
sleeps, folded over; others scan their phones—series, videos, alerts. Someone
else explains how to clear a slide, without tools. We wait under another wall
that could let go any minute. In Nepal, fate often turns on a curve, a rolling
stone. For the people here, it is as common as bread.
Hours later, we move. A motorbike ahead keeps
fishtailing in the mud; wheels spin in brown water; shocks groan; the rider
hauls at the bars, tries, backtracks, tries again. Mud everywhere. We make
headway—slow enough to be safe.
We miss the bus connection and hire a taxi to
Pokhara. We say goodbye to Manisha along the way—quick hugs, promises to meet
in Kathmandu. She smiles and dissolves among the jeeps; a clean gap remains,
like a door that closes without a slam.
The landscape changes its skin. Mountains
soften into hills; terraces of paddy flash with water. The air is warmer;
colors brighten; the labor of the pass already feels distant, turning into
story. After ten hours we reach Pokhara. I don’t remember it like this. In
truth, I barely remember it at all.
The hotel smells of border: stained carpet, an
air conditioner with a brown streak under its vent, bars on the windows, a door
that won’t close cleanly. For the price, it is fine. In fact, I make the tired
room my own—a small refuge where thoughts finally loosen.
Three slow days. We grant ourselves one more
walk—one last try for the Himalayan balcony. We set out early, on foot from the
hotel. After half an hour the road rises; then the jungle begins. Humidity lays
a sheath on the skin—drops sliding down the neck, sweat threading the spine and
chest. Broadleaf shade, dark-green curtains of fern, roots ribbing the path,
damp curls of wood, trunks scarred with moss. Odd birds squawk. Insects pour
their steady hiss. The growth is rich, oppressive. With height the jungle
thins; sun climbs; the air grows hotter still.
A flat rises with a great pipal at its center,
the sacred fig—broad trunk, heart-shaped leaves, heavy shade. Around it threads
and ribbons, small scraps of cloth tied by the devout—petitions, protection,
family vows. The pipal stands for long life and wisdom; under its leaves, they
say, the visible and the invisible are reconciled. I sit in the dome of its
shade.
Harun, relentless on high ridges, suffers here.
He cannot stand the humidity. Though his pace is still quicker than mine, the
jungle bends him. At a rice-channel pool he strips and dives without a thought,
into water clear and cold. I watch, lean over the edge; my legs burn with heat;
I don’t jump. I don’t know why. I should have.
We walk on until a huge Ganesh stands ahead.
The path curls; the view is milky—no mountains today, only a veil of haze.
Still the god is sharp against the blue: elephant head, round belly—guardian
who removes obstacles.
We sit on a bench in the shade, before a small
Shiva temple. At its heart a linga: a smooth stone cylinder on a
circular base—the oldest sign of Shiva, not an image but a force, the union of
male and female principles. I look at it: a symbol that shows nothing and says
everything.
Soaked with sweat, we stay where we are. I tell
the story: how Ganesh was shaped from the dust of his mother Parvati; how his
father Shiva, not recognizing him, cut off his head; how, remorseful, he gave
him an elephant’s, turning disaster into wisdom. A cruel and tender tale, and
proof of why he still opens roads.
That night we find a simple restaurant—a small
courtyard, a vine, mountains painted on the wall, warm lights. A Gorkha Strong
arrives—pale and cold, Gurkha warrior on the label, emblem of courage and
endurance. Harun tilts the bottle and pours slowly. The foam rises like a held
breath, slides along the glass, stops just short of the rim: the precision of
someone who knows how to hold back and how to let go, both at once. It is how
he speaks that evening.
Words fall round as stones finally rolling
downhill. Harun tells of the long ride through Europe and Iran, of the friend
he pedaled with for months; he speaks of work, of restlessness, of a love for
mountains that is both reason and refuge.
I don’t remember what I said—likely nothing
worth quoting. I remember the feeling: that, between curry and naan, we knew
each other a little better—beyond the trail-sparse exchanges and tea-house
courtesies.
And I think of Pokhara in the Seventies, when
the “fun” travelers came—lighting a joint by the lake, talking revolution to
the rattle of a sitar. Marijuana grew freely, as it does now; the sky felt
wider; time was the only wealth. In smoke-filled rooms, languages braided,
loves improvised, and the illusion of another life briefly held.
Perhaps we are not so different—at least I am
not—sitting at a table with a Gorkha in hand, and trusting not what is said but
what remains in the air once the glass is empty and silence no longer weighs.
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