Le nuove guide del cielo : Donne, giovani, montagne e cambiamento-imparare la giustizia nell’ascolto della terra/ The New Guides of the Sky
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Odle 2025 |
(Ita) Le nuove guide del cielo
Donne, giovani, montagne e cambiamento: imparare la giustizia nell’ascolto della terra.
Non
ho ancora disfatto la valigia.
È
lì, accanto al letto, come un animale silenzioso che mi guarda. Da quando sono
rientrata dal Nepal non ho voluto vedere nessuno. Non per rabbia né per
malinconia, ma per paura di perdere quel silenzio che mi aveva attraversata. È
come se, più resto lontana, più riesco a restare vicina a ciò che ho vissuto.
Evito
i bar, le chiacchiere, le voci. Esco dalla porta di servizio, quasi in punta di
piedi. Mi sento una nomade rimasta a metà viaggio.
Qualche
giorno dopo l’atterraggio ero già su un treno per Bolzano, con il borsone dove
ancora spuntavano scontrini nepalesi accartocciati: i resti di un bagaglio
fatto controvoglia. Poche ore più tardi ero seduta su una panca di legno
davanti alle Odle, in Val di Funes.
Ero
lì per un breve progetto con alcuni giovani altoatesini: parlare di
solidarietà, di montagna, della Gen Z Revolution in Nepal. Ma in realtà
ero lì anche per me.
Per vedere l’alba.
Pochi
giorni prima di partire da Kathmandu mi ero promessa: «Voglio vedere più
albe possibili quest’anno.» E mantenere una promessa, a volte, è la sola
forma di fede che conosco.
Mi
sono svegliata presto, mi sono avvolta nel sacco a pelo e sono uscita a sedermi
fuori, con il fiato che si trasformava in vapore. Davanti a me le Dolomiti si
accendevano piano, come se qualcuno le avesse immerse in una coppa di rame
liquido.
In
quel momento, tra il freddo e la quiete, le immagini del Nepal sono tornate
come un respiro caldo: Manisha, che mi sorride all’arrivo di una meta; Niraj,
che sistema le prese della palestra; Sajana e Uday, che parlano di guide e di
cambiamento climatico davanti a un caffè a Boudhanath; e Tashi che mi porta nel
Mustang con le sue storie documentate.
Mi
sono chiesta dove fossero. Se, in questo periodo di festa, stessero sorridendo
o piangendo qualcuno scomparso nelle proteste; se stessero comunque salendo,
insegnando, credendo in quella che per il Nepal sarebbe la stagione del
trekking — linfa di un’economia già provata dai monsoni e dagli ultimi
disordini.
E
ho capito che non si trattava solo di montagne, ma di un modo di stare al mondo.
Di respirare.
Di
resistere.
Io
che fino all’ultimo, in aeroporto, non sapevo se tornare o restare. Io che ho
pianto al decollo. Io che ora sento che il ritorno non è una fine, ma un nuovo
inizio. Forse sono tornata per tessere altri legami, per costruire ponti
invisibili e nuovi, più forti e solidi.
Da
sempre, in Nepal, guide e portatori sono uomini.
Ma
da qualche anno qualcosa si muove.
A
Kathmandu, tra i vicoli polverosi e le insegne colorate di Thamel, nascono
nuove storie: giovani donne che hanno deciso di diventare guide ambientali e
alpine, in un mondo che per troppo tempo ha detto loro che non era “un mestiere
da femmine”.
C’è
Durga, per esempio. Grazie alla montagna e alla formazione da guida ambientale
non solo impara a leggere e a scrivere, ma anche l’inglese. Soprattutto, grazie
all’organizzazione Three Sisters Adventure Trekking, riesce a fuggire da
un matrimonio forzato, minorile e abusivo.
Se prima era costretta a portare sulle spalle litri d’acqua o fasci d’erba in
una cesta di bambù chiamata doko, sostenuta da una cinghia frontale — il
namlo, che si appoggia sulla testa e scarica il peso sul corpo — adesso
porta uno zaino, indossa pantaloni. Forse scomodi rispetto alle gonne
tradizionali, ma infinitamente più pratici.
Manisha,
ventiquattro anni, del gruppo etnico Magar, è un’altra giovane donna che ha
avuto la fortuna di studiare e di avere l’appoggio della famiglia. I Magar sono
uno dei più antichi gruppi indigeni del Nepal, originari delle colline
centrali: noti per la loro resilienza e il loro spirito comunitario, hanno
sempre avuto un forte legame con la terra e con la montagna. Le donne Magar, in
particolare, sono considerate determinate, autonome, spesso pilastri silenziosi
delle famiglie e delle comunità.
L’ho
incontrata nel mio ultimo trekking nella valle di Nar Phu, e poi ancora alla AsendClimbing Wall, una palestra incastonata in un quartiere che conosco da sempre,
gestita da Niraj — un vecchio amico, alto e magro, con lo sguardo di chi ha
passato metà della vita appeso a una parete e l’altra metà a sognare come
contagiare gli altri con la stessa passione.
Niraj
ha organizzato quest’estate il primo “International Lead Climbing Competition”
del Nepal. Oggi sta completando il percorso per ottenere la certificazione da
guida alpina, seguendo gli standard IFMGA (International Federation of Mountain
Guides Associations): un traguardo che in Nepal significa raggiungere una
formazione riconosciuta a livello internazionale, indispensabile per la
sicurezza in alta quota e per la crescita del settore.
Ricordo
un suo racconto su un’operazione di soccorso al Manaslu, a 6400 metri, dove
aveva partecipato a una complessa evacuazione in elicottero. Il volo era stato
eseguito da Simone Moro, in condizioni estreme di visibilità zero. “Ci rendiamo
conto di quanto poco basti perché tutto vada storto,” aveva scritto Niraj, “e
di quanto conti la formazione: dal primo soccorso alla comunicazione, fino al
lavoro di squadra. Ogni gesto può salvare una vita.”
Niraj
— che ha fondato la palestra e formato la prima squadra nazionale di
arrampicatori nepalesi — crede profondamente nel valore dell’educazione e della
pratica. “La gente non capisce che è un lavoro vero,” mi dice. “Servono
formatori, materiali, vie da aprire. Ogni spit costa, ma ogni nuova via è una
porta aperta sul futuro.” Poi sospira: molti finiscono per dedicarsi solo al
trekking, più redditizio.
Quando glielo chiedo, sorride e alza le spalle: “Forse qualcuno dall’Italia
potrebbe venire ad aiutarci. A scrivere il manuale, a inaugurare una falesia
insieme. Sarebbe bello.”
Lo
guardo e penso che sì, sarebbe davvero bello. Forse anche necessario: per
creare un altro bacino, per mostrare che “si può fare.”
Mi
giro verso il bancone per ordinare una birra, e una voce familiare mi chiama
per nome.
Mi volto: Tashi.
Sorrido
incredula. Sono passati dieci anni esatti, mi dice, da quando ci siamo visti
l’ultima volta — subito dopo il terremoto.
Ci
abbracciamo con quella goffaggine che hanno i vecchi amici che si ritrovano
senza essersi aspettati.
Lui si ricorda cose che io non ricordo, e io ne ricordo altre che lui ha
dimenticato: una notte in cui ci eravamo imbucati a una festa nel quartiere
tibetano, insolitamente rumorosa per quelle strade; un falò acceso in un
cortile, una bottiglia passata di mano in mano, e la sua voce che raccontava la
leggenda dello yeti tra fumo e risate.
Tashi ha ancora negli occhi quella luce di allora: uno sguardo limpido, quasi infantile, come se ogni incontro fosse il primo. Oggi è fotografo, esploratore, documentarista.
Tashi Bista |
Mi
dice che ha rischiato molto nelle settimane passate filmando le proteste, ma
che a volte serve vedere da vicino per capire davvero.
Davanti
a una birra, in pochi minuti, riesce a condensare anni di lavoro e di passioni:
storie di ghiacciai, di famiglie, di comunità che cambiano per sopravvivere.
Mi racconta di “When Glaciers Go” il documentario che ha girato nel suo
Mustang, presentato al Banff Mountain Festival nel 2020, ma attualissimo.
Racconta
la storia della famiglia Gurung, costretta a lasciare il villaggio di Dhey, a
4.000 metri,dove è cresciuto Tashi, perché il ghiacciaio che lo nutriva non si
scioglie più.
L’acqua è scomparsa, la terra si è spaccata, e l’unica scelta è stata
ricominciare altrove, in un nuovo villaggio chiamato Chambaleh, dove si
piantano mele — “le nostre nuove monete rosse del Mustang”, dice ridendo.
Le
sue parole mi fanno pensare alle mele del Trentino, ai meleti che ho
attraversato pochi giorni fa con lo sguardo dal finestrino del treno, e a
quanto le stagioni si stiano deformando anche da noi.
Nel film, la famiglia si divide tra tre luoghi: i nonni rimasti a Dhey, i
genitori che coltivano mele nel nuovo villaggio, i figli che studiano più a
sud.
Un equilibrio frantumato, come l’acqua che si ritira: è la frattura generazionale del cambiamento climatico. “Ogni scena,” mi spiega, “ha dei bambini sullo sfondo. Non per caso. Loro vedono tutto, imparano tutto, anche quando gli adulti non se ne accorgono.”
Ascoltandolo, penso che Tashi faccia il lavoro dei miei sogni: esploratore, documentarista, narratore di confini.
È
oggi uno dei National Geographic Explorer del Nepal, e si dedica a progetti di
conservazione e formazione ambientale tra le comunità montane. Mi parla del
Mustang come di un luogo sospeso tra la polvere e il cielo, dove “le strade
arrivano ma i ghiacciai se ne vanno”.
E poi aggiunge, con un sorriso che gli illumina il volto: “Il mondo si muove,
ma noi dobbiamo imparare a restare.”
Restare.
I giovani in Nepal se ne vanno, ma come Tashi e Niraj, Manisha resta e partecipa
alle gare di arrampicata: è tra le migliori, ma non si sente mai abbastanza
pronta. “Vorrei diventare guida alpina,” mi dice dietro un bicchiere di caffè
freddo, “anche se so che molti pensano sia un sogno troppo grande. Ma io lo
voglio. Mi fa sentire libera.”
Poi
abbassa la voce, mentre dietro di noi un tavolo di guide maschi ride
rumorosamente — li saluta, alcuni sono colleghi: “Il difficile non è solo la
montagna. È essere una ragazza giovane, sola, in posti sperduti, dove non puoi
chiamare nessuno. Ai miei genitori non piace. E poi sì, certo, dovrei
‘sistemarmi’, ma a me non piace nessuno.”
Le
stanze per le guide sono spesso sullo stesso piano, si mangia insieme, e non
sempre è facile. Mi racconta dei commenti, degli sguardi, dei capi tecnici non
pensati per corpi come il suo — troppo piccoli, troppo femminili — e di come
spesso debba arrangiarsi con ciò che lasciano i turisti.
Le
corde, le chiedo, almeno quelle sono buone?
Sorride
e fa quel gesto nepalese con la testa che può voler dire sì o no, o forse
entrambe le cose.
Nonostante tutto, resta lì: a testa alta, pronta a scalare, a insegnare, a
sognare.
E come lei, altre.
L’ultimo
incontro che faccio è con Sajana e suo marito Uday, fondatori di Explore HubNepal, in un piccolo caffè a Boudhanath. Hanno una bambina piccola. Sajana
avrebbe dovuto accompagnarmi nel trekking, ma ha preferito restare con lei.
“Le
donne,” mi spiega, “vivono ancora ambienti di lavoro iniqui. Spesso vengono
giudicate incapaci o trattate come eccezioni. Per questo abbiamo creato
workshop di sei giorni: leadership, tecniche di guida, cambiamento climatico,
fotografia. Devono sentirsi pronte, sapere di poter guidare, innovare,
includere.”
Uday— fotografo e formatore — sorride con umiltà: dice che gli piacerebbe fare un
trek da solo per scattare, ma Sajana è preoccupata. Dopo le proteste, molte
prigioni sono state danneggiate e ci sono ancora evasi in circolo. Lo elogio
con sincerità e gli confesso che la copertina di questo stesso blog è un suo
scatto.
Entrambi
proseguono: “Il corso per diventare guida ambientale copre tutto — flora e
fauna del Nepal, geografia e storia, pronto soccorso, montaggio tende — ma non
basta. Non distingue tra un sentiero a 1000 metri e una salita a 5000. Bisogna
ripensare, adattare, insegnare a leggere un clima che cambia.”
Fuori
si annuncia un temporale. Ridiamo ricordando il mio viaggio in jeep sotto il
diluvio: dodici ore di fango e paura, il fiume in piena, la strada che scompare
sotto le ruote.
Salendo
al rifugio qui sulle Dolomiti ho pensato alle nostre strade pulite, asfaltate,
accessibili: in un batter d’occhio, ovunque. Accessibilità. In Nepal questo è
spesso impossibile. È un paese fragile: i monsoni diventano più violenti, le
frane più frequenti.
Proprio
a Maggio di questo anno, nel Langtang, monaci e ricercatori si erano riunitisul ghiacciaio Yala per un tributo spirituale e scientifico. L’ICIMOD, che da
anni chiama l’Hindu Kush–Himalaya “il polso del pianeta”, aveva voluto
ricordare la vita del ghiacciaio — ormai ridotto del 66% dal 1974 — e il
rischio imminente della sua “morte”: quando il ghiaccio smette di muoversi, e
il respiro del mondo si ferma. Le offerte di latte, riso e frutta, e due lastre
di granito con incise poesie di Andri Snær Magnason e Manjushree Thapa, sono diventate
un monito: «Sappiamo cosa sta accadendo e cosa va fatto; solo voi sapete se
lo faremo.»
Yala
non è solo un simbolo del Nepal, ma di noi tutti. Perché non sono le comunità
di montagna a inquinare l’aria o a sciogliere i ghiacci: siamo noi, con le
nostre abitudini, i nostri consumi, la nostra disattenzione.
E così, quando un ghiacciaio muore in Himalaya, un’eco arriva fin qui: nei
torrenti che si ritirano, nei boschi che si seccano, nei ghiacciai delle Alpi
che si spaccano al sole. È la stessa ferita, solo vista da un altro versante.
Photo: Jitendra Bajracharya/ICIMOD |
“Le
guide,” dico ad alta voce davanti a Sajana e Uday, “non sono ancora formate per
affrontare queste emergenze, ma potrebbero esserlo: i primi educatori sul
cambiamento climatico, i messaggeri che arrivano dove lo Stato non arriva.”
Gli
occhi di tutti si illuminano: potrebbe già essere un progetto — una nuova forma
di empowerment giovanile, anche femminile.
Rimango
seduta sulla panca, il respiro che si condensa nell’aria fredda ed evapora a
ogni sorso di tè caldo.
Le Dolomiti tacciono, eppure sento che parlano la stessa lingua di quelle
montagne lontane. Una lingua di vento, di pietra e di attesa.
E
un senso di appartenenza che mi rassicura: un po’ per adozione, come le
Dolomiti, un po’ per radicamento, come le mie Apuane, con il marmo che brilla
come ghiaccio e le ferite aperte delle cave; come l’Appennino tosco-emiliano,
dove il bosco custodisce e consola, e ogni passo è una lezione di lentezza e
consapevolezza; e come il Lungomonte pisano, piccolo tesoro tra mare e collina,
dove il vento porta ancora odore di sale e di ginepro.
Sono
queste le montagne che chiamo casa — non per nascita, ma per scelta, per
devozione. Montagne che, come quelle del Nepal, insegnano che la libertà non è
mai data: va conquistata passo dopo passo, in silenzio, con rispetto, umiltà e
coraggio.
E
penso che, dopotutto, non si sta chiudendo niente. Si sta aprendo.
Che
questo ritorno non è un punto fermo, ma una nuova partenza, e che il viaggio
altrove continua — come continueranno i miei racconti.
Se
penso a Manisha e alle altre, capisco che il loro cammino non è diverso dal
mio. Loro lottano per essere riconosciute, per poter guidare, insegnare,
creare.
Io,
qui, sto solo cercando il modo di continuare quel viaggio da un’altra parte —
forse in altre valli, luoghi, con altre donne e uomini, ma con lo stesso
spirito.
Forse
proprio da queste montagne, da questi territori che non ho mai saputo chiamare
“casa” con fermezza, può nascere un ponte: uno scambio di esperienze, di
formazione, di idee.
Vorrei che i giovani — e in particolare le ragazze nepalesi — avessero accesso
non solo all’allenamento tecnico, ma anche a corsi di leadership, gestione, sicurezza,
mentoring.
Vorrei che le nostre giovani donne dell’outdoor e dell’arrampicata potessero
unirsi a loro, e tutte sentirsi parte di una comunità che le sostiene, le protegge,
le fa crescere.
Che potessero avere non solo corde più forti, ma spalle più sicure.
E
mentre scrivo, penso che questo scambio non sia solo solidarietà, ma anche responsabilità.
Perché le montagne, tutte, sono collegate da un unico respiro, e l’acqua che
scende dai ghiacciai himalayani è la stessa che, un giorno, scorre nei nostri
torrenti.
Costruire
percorsi di educazione ambientale, formazione e solidarietà tra giovani del
Nepal e delle nostre regioni significa restituire qualcosa: imparare insieme
come salvaguardare ciò che ci sostiene.
Come su Yala, dove scienziati e monaci hanno unito spiritualità e ricerca,
anche qui possiamo farlo: unire pratica, conoscenza e rispetto.
Se
riconosciamo questa interdipendenza, possiamo trasformare l’outdoor in una scuola
di giustizia, fatta di empatia, ascolto e connessione.
Allora
sì, il ponte tra Odle, Apuane e Appennino e Langtang non sarà solo poesia: sarà responsabilità
condivisa, e ogni alba — qui o in Nepal — tornerà ad avere il peso dolce di una
scelta.
Forse
è questo, alla fine, il senso del mio ritorno — temporaneo, ma necessario.
Ritrovare il passo e preparare il prossimo.
Perché
ogni viaggio, se ascoltato davvero, non finisce mai.
E
mentre il sole sale sopra le Odle, e un vento sottile arriva da sud, mi sembra
di sentire di nuovo la voce di Manisha:
“Quando
salgo, non penso a dove sto andando. Penso solo a non smettere di andare, e a
sentirmi libera.”
Z.Liew
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(Eng) The New Guides of the Sky
(Terra Altrove — Dolomites / Nepal)
A few days after landing I was already on a train to Bolzano, crumpled Nepali receipts still clinging to the duffel. By late afternoon I was on a rough wooden bench facing the Odle in Val di Funes. I was there to work with a group of South Tyrolean youth—solidarity, mountains, the Gen Z uprising in Nepal. I was there for me, too.
To watch the dawn.
Just before leaving Kathmandu I had made a promise: see as many sunrises as possible this year. Sometimes keeping a promise is the only faith I know. I slid into my sleeping bag and sat outside while my breath turned to steam. The Dolomites woke slowly, as if lowered into a bowl of liquid copper.
In the cold and the quiet, Nepal came back like warm breath: Manisha smiling when we topped a pass; Niraj re-setting holds at the climbing gym; Sajana and Uday talking guides and climate over coffee in Boudhanath; Tashi walking me into Mustang with the stories he has filmed. I wondered where they were in this season of festivals—smiling, or mourning those who vanished in the protests; still climbing, still teaching; still believing that trekking season—lifeblood of a fragile economy—would hold.
It wasn’t only about mountains. It was about a way to stand in the world.
To breathe.
To persist.
I cried at takeoff. At the gate I almost did not board. Back here, the return does not feel like an ending. More like the quiet beginning of another rope. Maybe I came back to knot new lines, stronger and cleaner.
In Nepal, porters and guides have long been men. And yet, something has shifted.
In Kathmandu’s dust-blue alleys and neon Thamel signs, new stories are being written: young women choosing to guide—on trails and on rock—in a country that kept telling them this wasn’t their work.
There is Durga. The mountains and a training program gave her not only literacy and English, but a route out of a forced child marriage—thanks to Three Sisters Adventure Trekking. She once hauled water and grass in a bamboo doko, the weight cinched across brow and spine with the namlo. Now she shoulders a pack. Pants instead of skirts—less graceful maybe, infinitely more practical.
And there is Manisha, twenty-four, from the Magar community—old people of Nepal’s middle hills, stubbornly communal, women often the quiet pillars of their households. We met on the Nar Phu trails; later I found her at Asend Climbing Wall, the gym Niraj runs—tall, spare, with the look of someone who has hung by his fingers for half a lifetime and spent the rest trying to infect others with that same calm fever.
This summer Niraj launched Nepal’s first International Lead Climbing Competition. He’s also moving through the long corridor toward IFMGA certification—the international standard that means safety and shared language in high places. He once told me about a rescue on Manaslu, 6,400 meters, helicopter coming blind, whiteout pinning the tents. Simone Moro flew in. “You realize,” Niraj wrote later, “how little margin there is—how training and teamwork save lives. Wilderness first aid. Radio. Who moves when.” It’s not bravado; it’s method.
Niraj formed the first national climbing team—women and men. “People don’t see it as real work,” he shrugged. “We need instructors, hardware, new routes. Every bolt costs. But every new line is a door.” He smiled: “Maybe someone from Italy could come help write a manual, open a crag, throw a small festival on the rock.”
Yes, I thought. Not just beautiful—necessary.
I turned for a beer and heard my name. Tashi. We laughed, clumsy in the way old friends are after too many unshared years. Ten, he said. Ten since the earthquake. He remembered us sneaking into a wild party in the Tibetan quarter; I remembered a courtyard fire and his long story about the yeti, smoke curling up between sentences.
Now he makes films. He ran risks to document the protests, then went back to his home terrain in Upper Mustang. Over one beer he gave me years: glacier stories, family stories—ways people reroute themselves when the water goes. His short, When Glaciers Go, shown at The Banff Mountain Festival 2020, follows the Gurung family leaving Dhey at 4,000 meters because the glacier no longer feeds their fields. They move to Chambaleh, plant apples—“our new red coins,” he laughed. I thought of the orchards in Trentino streaking past my train window, and how even there the seasons feel off-kilter. In Tashi’s film the family splits—grandparents in the old place, parents farming cash crops, children away at school. A fracture line through generations, like meltwater pulling back. Kids are in almost every frame. “On purpose,” he said. “They see everything.”
“Roads arrive,” he told me. “Glaciers leave. We have to learn how to stay.”
Stay. The hardest verb.
Dhey village, Nepal. (Courtesy of Tashi Bista) |
Many young Nepalis leave—chasing jobs, safety, light—but some, like Tashi, Niraj, and Manisha, stay.
Manisha keeps climbing: one of the best in Nepal, though she never feels ready. “I want to become a mountain guide,” she told me once, behind a glass of cold coffee. “People say it’s too big a dream. But I want it. It makes me feel free.”
Then her voice lowered; behind us a table of male guides burst into laughter. She greeted them, half amused, half weary. “The hard part isn’t the mountain,” she said. “It’s being a young woman—alone, far from anyone you can call. My parents hate it. They say I should settle down soon. But I don’t like anyone.”
The dorms for guides are often shared floors, meals eaten together, and the air thick with jokes not meant kindly. Technical clothes rarely fit her—made for broader shoulders, longer limbs—so she scavenges what tourists leave behind.
I asked about ropes. “Are they at least good?”
She smiled and tilted her head in that Nepali gesture that could mean yes, no, or both.
Manisha Magar Guide |
Later, in a small café in Boudhanath, I met Sajana and Uday, founders of Explore Hub Nepal. They have a small daughter; Sajana had passed my trek to Manisha so she could stay with the child. “Women still face unfair places,” she told me. “People question their skill, call them exceptions. That’s why we started six-day workshops—leadership, guiding, climate change, photography. We want them ready to lead, to innovate, to include.”
Photo from Udaya_Visuals |
Outside the clouds thickened; rain on tin roofs. We laughed remembering my twelve-hour jeep ride through mud and fear, the river flooding, the road vanishing under wheels. On the way back to the refuge in the Dolomites I’d thought of those endless safe roads—paved, predictable, reachable in minutes. Accessibility. In Nepal it’s a luxury. The country is fragile: monsoons harsher, landslides frequent.
And then the sky turned heavy again. In the Langtang, this past May, monks and scientists climbed Yala Glacier for a tribute. ICIMOD calls the Hindu Kush–Himalaya the planet’s pulse—ten great rivers, nearly two billion people downstream. Yala has already shrunk by two-thirds since the seventies; if a glacier stops moving, it is declared dead, and Yala may be the first in Nepal to cross that threshold. Offerings of milk and rice, two granite plaques with poems by Andri Snær Magnason and Manjushree Thapa. We know what is happening and what must be done; only you know if we did it. That line hung in the thin air. It isn’t the high-country communities burning the world. It’s us—our feverish supply chains, our appetite. When a glacier dies in the Himalaya, the echo reaches here: brooks shrinking, forests crisping, Alpine ice cracking open under summer sun. Same wound, other face.
Photo: Jitendra Bajracharya/ICIMOD |
“Guides aren’t yet trained for these emergencies,” I told Sajana and Uday later, “but they could be—front-line educators on climate, messengers who reach where the state doesn’t.” Their eyes lit—maybe a project already: youth empowerment, women centered, mountain-to-mountain.
Back on the bench, my tea cooling, I listen to the Dolomites keep their beautiful silence. Still, they speak the same language as those far ridges: wind, stone, waiting. And I feel the tug of other homes—the Apuan Alps with their marble glitter and quarried wounds; the Tuscan-Emilian Apennines where the forest slows you until you match its heart; the small Lungomonte Pisano tasting faintly of salt and juniper. These are the places I call home not by birth but by devotion. Like Nepal, they teach that freedom isn’t given; you earn it—foot after foot, with respect and a little courage.
When I think of Manisha and the other women, I see the same path under my feet. They fight to be seen, to guide, to teach, to make. I am looking for ways to carry that journey elsewhere—other valleys, other communities—same spirit. From these mountains that I never dared to call “home” outright, a bridge can rise: exchanges, field courses, shared manuals, safety drills, leadership, mentorship—not only solidarity, but responsibility. Because the air I breathe here is sibling to the snow that falls there. And because education—in the open, with our hands on rope and rock—can still be a school of justice: empathy, attention, connection.
If we accept our interdependence, the outdoors stops being a backdrop and becomes a classroom. Like on Yala—ritual beside weather stations and training—here, too, we can braid method with reverence, memory with plan. Then the line between the Odle, the Apuane and Apennines, and the Langtang won’t be just poetry; it will be a shared duty. Every dawn, here or in Nepal, will carry the gentle weight of a choice.
Maybe that’s the meaning of this temporary return:
to find the step, and prepare the next.
Journeys don’t end if you keep listening.
And as the sun climbs above the Odle, I hear Manisha again, almost laughing:
When I climb, I don’t think about where I’m going.
I just don’t stop—because that’s the only way I feel free.
Z.Liew
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